L’abdicazione di un papa è un evento assai raro nelle storia della Chiesa: nel corso di duemila anni, infatti, solamente dieci pontefici hanno rinunciato alla carica. L’ultimo è stato Benedetto XVI undici anni fa, mentre per le precedenti nove bisogna risalire al Medioevo e addirittura ai primi secoli dell’era cristiana. In particolare, alla fine del Duecento ebbe luogo un’abdicazione che lasciò attoniti i contemporanei, tanto da essere persino menzionata da Dante nella Divina Commedia. Sto parlando della rinuncia di Celestino V, “colui che per viltade fece il gran rifiuto“.
Roma, 1294. La sede apostolica è vacante da oramai due anni, dalla morte di Niccolò IV. Le fazioni interne al conclave, che fanno riferimento alle più potenti famiglie romane, non hanno ancora trovato un nome che possa mettere tutti d’accordo. Ma ecco il lampo di genio. Il cardinale Latino Malabranca propone Pietro del Morrone, un eremita ottuagenario fondatore di una congregazione monacale riconosciuta vent’anni prima da Gregorio X.
La sua vita ascetica e la sua attività di assistenza lo hanno reso molto popolare, tanto da essere già quasi venerato come un santo dai fedeli. La sua età avanzata, inoltre, lo rende un pontefice di transizione, in attesa che i rapporti di forza all’interno del collegio cardinalizio si riequilibrino in favore di una figura più forte e unitaria. Pietro del Morrone, che non era neppure a Roma al momento dell’elezione, decide con titubanza di accettare questo gravoso impegno. Assume il nome pontificale di Celestino V.
Prima di recarsi a Roma, il nuovo Papa si ferma presso l’abbazia di Montecassino. Qui emana una serie di bolle a favore della propria congregazione, inserendola all’interno dell’Ordine benedettino, uno dei più antichi ordini monastici: in questo modo conferisce autorevolezza alla propria confraternita. Lungo il viaggio è raggiunto da Carlo II d’Angiò, re di Napoli, il quale si offre di ospitare Celestino nel suo palazzo con il pretesto che Roma sia una città pericolosa. Il pontefice si lascia convincere e così l’intera corte papale deve trasferirsi con Celestino nella città partenopea. Il re angioino vede nel carattere arrendevole del nuovo papa una concreta possibilità di manipolare la Chiesa a proprio favore.
E infatti Celestino V si rivela completamente inadatto a ricoprire il suo ruolo. Si disinteressa del governo della Chiesa, arrivando addirittura a firmare delle bolle in bianco che Carlo II può compilarle a suo piacimento. Nonostante le offerte del monarca napoletano di soggiornare negli sfarzosi appartamenti della residenza reale, Celestino richiede invece che gli sia riservata una piccola cella nel palazzo, cosicché possa ritirarsi privatamente nella preghiera. Ben presto l’intero collegio cardinalizio si accorge dell’errore commesso e decide di convincere il papa a rinunciare. Ma non serve molta insistenza: lo stesso Celestino si rende conto di non essere in grado di sostenere il peso della carica pontificia.
Sussiste però un problema di natura giuridica. Nessuno conosceva l’esatta procedura da seguire in caso di abdicazione volontaria di un pontefice, vista la rarità con cui essa avveniva. Viene dunque interpellato Benedetto Caetani, importante e colto cardinale, il quale scorre a ritroso la storia della Chiesa romana per scovare situazioni analoghe e formulare la corretta prassi giuridica a cui attenersi. Il 13 dicembre 1294, quindi, dopo soli cinque mesi di pontificato, Celestino V rinuncia ufficialmente alla tiara papale.
La notizia produce molto sgomento. La comunità dei fedeli di Pietro da Morrone inquadra la sua scelta all’interno della volontà di allontanarsi dalla corruzione di Roma. Addirittura, si diffonde una leggenda secondo la quale ogni notte Caetani, per convincere il papa ad abdicare, si collocasse nella cella vicino a quella dove soggiornava Celestino V per simulare, con l’ausilio di una piccola tromba, voci angeliche che gli sussurravano “Celestine! cede! ” (Celestino! Rinuncia!).
Il nuovo conclave, molto più breve del precedente, elegge proprio Caetani, il quale assume il nome di Bonifacio VIII. Costui, però, è malvisto da buona parte del gregge di fedeli in quanto esponente dell’alta aristocrazia romana corrotta. Celestino intende a questo punto tornare alla vita eremitica, ma Bonifacio glielo vieta, temendo che i propri oppositori interni sfruttino la popolarità del papa emerito per provocare uno scisma.
Pietro del Morrone decide quindi di fuggire, ma Papa Bonifacio VIII riesce a catturarlo con l’aiuto di Carlo II. Viene ricondotto a Roma e dinnanzi a Caetani lo ammonisce rivolgendogli una frase alquanto premonitrice: “sei arrivato al Papato come un lupo, governerai come un leone e morirai come un cane“. Bonifacio, quindi, lo fa rinchiudere nel castello di Fumone, vicino Frosinone, dove morirà due anni dopo. Una leggenda vuole che sia stato ucciso con un chiodo conficcatogli nel cranio, visto che il cadavere riporterà un piccolo foro sulla fronte.
Come detto in apertura, la sua scelta inusuale scuote molto le coscienze dei contemporanei. Alcuni infatti ritengono che rinunciare ad una sfida così importante sottoposta da Dio sia un’ignominioso atto di codardia. Addirittura, di questo parere sembra essere lo stesso Dante Alighieri. Nel III canto dell’Inferno, quando descrive la visita nell’Antinferno, luogo di destinazione delle anime degli ignavi, coloro che nella vita terrena non hanno mai assunto una posizione definita, il sommo poeta scrive di vedere e riconoscere “l’ombra di colui che per viltade fece il gran rifiuto“. Molti studiosi concordano nel riconoscere in questa prorompente espressione, ormai divenuta proverbiale, un’accusa diretta proprio a Celestino V.