Solo nel 2014 i vertici dell’apparato militare brasiliano hanno riconosciuto le responsabilità dell’esercito per quanto riguarda i crimini contro l’umanità commessi in 21 anni di dittatura, eventi che dal 1964 al 1985 caratterizzarono il cosiddetto “Regime dei Gorillas“. Continuiamo con la serie dedicata agli autoritarismi sorti in Sudamerica durante la seconda metà del XX secolo. La copertina di questa carrellata se l’è accaparrata l’Argentina di Videla, invece oggi ci spostiamo poco più a nord, concentrandoci sul florido, ricco, contraddittorio Brasile.
Le coordinate temporali le abbiamo già sottolineate. Cosa accadde però nel ’64? Sebbene la situazione politica del paese non fosse propriamente di semplice comprensione, si può riassumere il tutto con le seguenti affermazioni: una serie di governi (DEMOCRATICAMENTE ELETTI), ultimo tra i quali quello di João Goulart, condussero il Brasile all’allontanamento dai dettami economici/finanziari statunitensi. Ciò si tradusse nella nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia, con un occhio di riguardo alle compagnie petrolifere, le quali redini erano de facto nelle mani di multinazionali a stelle e strisce. Accompagnato a ciò, riforme agrarie, nonché sull’istruzione, che proprio non piacevano al nazionalismo interno al paese.
Così il Dipartimento di Stato USA fece la classica mossa, alla quale ormai siamo abituati: scelse l’uomo forte, puntò sulla sua salita al potere, infischiandosene delle conseguenze sociali e civili. L’importante era proteggere gli interessi yankee nel suddetto paese. Washington scommise sul maresciallo Humberto de Alencar Castelo Branco, il quale destituì con la forza il neopresidente Goulart. L’esercito proclamò così nel 1964 la “Quinta Repubblica” o se preferite “Regime dei Gorillas”. Il programma nazionale fu limpido fin dal principio: annullamento delle prerogative sindacali, cancellazione delle forze partitiche d’opposizione, adozione di un classico nazionalismo militarista e di un marcatissimo anticomunismo.
I provvedimenti atti ad irrigidire la carta costituzionale, intrapresi dal 1967, resero la vita difficile, anzi, difficilissima per chi non sosteneva l’autocrazia di Brasilia. Oggi le stime sulle vittime non convincono, proprio perché l’esercito fu bravo, in quei 21 anni, a far sparire le prove incriminanti. Più di 8.000 morti certificati, la maggior parte dei quali erano indigeni dell’Amazzonia. Essi non accettarono la distruzione delle loro terre in nome dell’industrializzazione. Videro schiacciare la loro negazione con metodi repressivi indicibili. Il paese, che prima del golpe era riuscito ad annullare il debito estero (attraverso criticatissime politiche di austerità), adesso riaprì i battenti agli investimenti internazionali. Guarda caso questi furono vantaggiosi e redditizi principalmente per gli USA.
I prestiti annuali passarono dall’essere pari allo zero prima del ’64, all’andare sui 500 milioni di dollari l’anno intorno agli anni ’70. Sì, è vero, il paese visse un boom economico all’epoca, ma era falsato dai bilanci in rosso, che condussero Brasilia intorno al 1980 all’inadempienza. Ne conseguì una pesantissima crisi economica. Naturalmente questa contribuì al crollo della dittatura nel 1985. In realtà un lieve processo di democratizzazione – dovuto all’instabilità politica, all’inflazione cronica e alla simultanea caduta degli altri regimi sudamericani – era già in corso dal 1979.
Nel 1985 si indissero le prime elezioni libere da vent’anni a quella parte. Vinse la riorganizzata (e accettata) opposizione, capeggiata da Tancredo Neves e appoggiata da Luis Ignácio da Silva. Sì, lo stesso Lula che, al momento in cui scriviamo, è presidente in carica della Repubblica Federale del Brasile. Oggi il paese verdeoro ancora deve fare i conti con quei 21 anni di autoritarismo, con la repressione di Castelo Branco e dei suoi successori. Un po’ come tutti gli altri stati che andremo a trattare in futuro, sempre per non dimenticare…