La sua era la voce degli angeli. Chissà quante volte i suoi ascoltatori pensarono qualcosa del genere. Farinelli, che per buona parte del ‘700 incantò platee con un canto che di terrestre aveva ben poco, avvicinandosi di più ai cancelli del divino, è un nome che la storia non potrà mai dimenticare. Raccontandovi la sua di storia, vogliamo rendere omaggio ad una persona la quale arte, seppure riconosciuta altissima all’unanimità, è svanita, perché vissuta nella memoria di chi non c’è più. Ma forse è questo l’ultimo incanto che il Farinelli ci ha lasciato.
Nato ad Andria nel 1705, allora territorio del Regno di Napoli, il piccolo Carlo Maria ebbe fin da subito la fortuna dalla propria parte. Visse i primi anni della sua vita in una famiglia colta, agiata e, cosa più importante, amante della musica. Il padre, tale Salvatore Broschi, lo instradò al canto, forse inconsapevole del futuro che avrebbe atteso il prodigioso figlio. A 9 anni, Carlo Maria raggiunse suo fratello Riccardo nella capitale: Napoli. La leggenda vuole che proprio il fratello, in quegli anni, spinse per la castrazione del giovanissimo talento. Una prassi illegale quella dell’evirazione, che però veniva eseguita per false motivazioni di base. L’intenzione, con il piccolo Broschi, fu fin dall’inizio quella di preservare una voce che già allora colpiva e lasciava il segno.
Infatti, a notare quel timbro paradisiaco, furono i Farina. Famiglia partenopea di illustri magistrati, i quali si comportarono da mecenati, sollevando la persona di Carlo Maria. Egli, per omaggiare chi credette in lui, assunse il nome d’arte con il quale il mondo lo ricorda: Farinelli. Nel 1720 il debutto a Napoli nell’opera Angelica e Medoro, durante la quale strinse amicizia con il librettista Pietro Metastasio. I due manterranno un forte legame fino allo spirare. Da una capitale all’altra: Farinelli conquistò anche i palchi della prestigiosa Roma. Qui si consumò uno dei primi leggendari aneddoti; sembra che la voce del prodigioso ragazzo non solo tenne la nota di una tromba tedesca, ma surclassò il trombettista stesso, guadagnandosi l’applauso del teatro.
Fino al 1734 Farinelli deliziò i più prestigiosi teatri della penisola, assestandosi su una fama di caratura internazionale. Il grande passo lo fece trasferendosi a Londra e partecipando ad una “disputa artistica” tutta nobiliare. Come due fazioni rivali, l’Opera della Nobiltà (di Federico di Hannover, principe del Galles) fronteggiò a lungo con la Royal Accademy of Music (capeggiata dal re in persona, Giorgio II). Farinelli firmò un ricchissimo contratto con la prima delle due, esibendosi per un biennio. Forse l’aria londinese non lo entusiasmò (per quanto i guadagni fossero da capogiro). Di conseguenza prese la via di Parigi, meta obbligata per un cantante del suo calibro; ne fu contenta l’alta aristocrazia di Luigi XV.
Tuttavia stava per iniziare allora uno dei periodi più floridi, se non il più redditizio, del Farinelli. Filippo V, cronicamente depresso, si convinse ad affrontare una sorta di terapia musicale. I soldi dalle parti di Madrid non mancavano di certo e a corte chiamarono Farinelli. Il contratto suonava più o meno così: tu Farinelli canti esclusivamente per me, re Filippo V di Borbone, stracciando tutti gli altri legami contrattuali. Ti pago e pure bene. Una rendita fissa di 2.000 e passa ducati annui, stanze nel palazzo reale, carrozze, cavalli e soddisfazioni di ogni genere per un ventennio, fino al ’59. La voce di Farinelli divenne un’esclusiva della famiglia reale spagnola. Non solo Filippo, ma anche Ferdinando VI lo ascoltò estasiato, si spiega così il conferimento dell’autorevole Croce di Calatrava.
Quando si spense anche Ferdinando, il successore Carlo III non mantenne il buon costume delle precedenti teste coronate, allontanando Farinelli. Seppur mantenuto, il cantante lirico si ritirò a Bologna, preservando una vita agiatissima fatta anche di incontri illustri. Bussarono alla porta di villa Farinelli i vari Mozart, Giuseppe II d’Austria, però la malinconia era troppa e il nostro celebre lirico non la resse. Seppe nell’aprile del 1782 della morte dell’amico fidato Metastasio e quindi si abbandonò alla stessa fine nel luglio dello stesso anno. Studi sul suo DNA sono in corso dal 2006, alla ricerca del segreto professionale di Carlo Maria Michele Angelo Broschi, riconosciuto universalmente come la più bella voce che la lirica abbia mai ascoltato. Quale che siano i risultati, ci piange il cuore, perché di quella voce resta solo la memoria. Una memoria che non canta.