11 novembre 1975, dopo tredici lunghi anni di lotte intestine contro la morsa colonialista portoghese, l’Angola ottiene l’indipendenza. La gioia è effimera, poiché un altro conflitto, di gran lunga più lungo e maggiormente violento, attende la neonata repubblica. È la più classica delle guerre civili, dove gli attori predominanti cercano di sopraffarsi vicendevolmente così da raggiungere l’apice del potere statale. Come in tutte le guerre civili dello scorso secolo però, a giocare la “partita” non sono solo le fazioni direttamente coinvolte, ma anche i loro promotori, i quali hanno uno o più interessi nel sostenere la pedina sulla quale hanno scommesso. Dicesi “guerra per procura”. Ebbene, data tale premessa, dal 1975 al 2002 in Angola è andata in scena una delle “guerre per procura” più sanguinose del XX secolo. Ed è giusto che se ne parli.
Per avere un quadro d’insieme più chiaro, soprattutto sulla coeva rivoluzione dei garofani e sull’indipendenza angolana, consiglio la lettura dei rispettivi approfondimenti, da noi realizzati in tempi non sospetti. Alla luce di ciò, non mi dilungherò sui fatti precedenti allo scoppio della guerra civile. Tuttavia è obbligatorio soffermarsi sulle principali fazioni che per 26 anni hanno mantenuto alto il tenore dei combattimenti nell’Africa sud-occidentale. Dunque abbiamo:
- Il Movimento Popolare di Liberazione dell’Angola (MPLA), di astrazione marxista-leninista; guidato da Agostinho Neto e supportato dall’Unione Sovietica, nonché da Cuba.
- L’Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola (UNITA), inizialmente di orientamento maoista, salvo poi protendere per una sbiadita ideologia politica, basata sull’anticomunismo; guidato da Jonas Savimbi, progressivamente supportato dagli Stati Uniti d’America e dal Sudafrica.
- Il Fronte Nazionale di Liberazione dell’Angola (FNLA), d’animo conservatore, marcatamente filo-occidentale, anche se dal ruolo meno rilevante all’interno del conflitto.
A seguito dell’indipendenza dell’11 novembre 1975, il Portogallo abbandonò la sua ex colonia africana. Si venne a creare un vuoto di potere, così come sorsero i primi dissidi su chi avrebbe dovuto assumere la guida del paese. La competizione attirò l’interesse delle due maggiori superpotenze a livello globale, USA e URSS. L’Angola divenne dunque il “loro” campo di battaglia, il giusto pretesto per poter scrivere un nuovo capitolo della Guerra Fredda.
Da una parte e dall’altra iniziarono a piovere aiuti d’ogni genere: finanziari, logistici, militari. Addirittura potenze regionali come lo Zaire di Mobutu e il Sudafrica di Vorster (successore di Verwoerd) inviarono truppe o armamenti. Oltre a loro si inserì nella contesta la Cina, con più di 450 milioni di armi per supportare i maoisti dell’UNITA, o più pesantemente Cuba: nelle idee di Castro l’Africa sud-occidentale era il terreno fertile per la diffusione del comunismo, perciò l’MPLA andava addestrato alla guerriglia e supportato nell’attuazione della medesima.
Come si evince persino da questa frettolosa spiegazione, i tre movimenti angolani furono ultra militarizzati fin dalle prime battute del conflitto civile. L’intervento straniero acuì i contrasti politici, ideologici ed etnici preesistenti. Scontri armati si verificarono già prima dell’indipendenza; a partire dal marzo del ’75 l’MPLA iniziò ad impossessarsi di Luanda, la capitale angolana. Vi riuscì dopo un mese, al prezzo di 5.000 vittime. Fu solo in quel momento che contingenti zairesi e sudafricani varcarono il confine per aiutare le fazioni in quel momento più deboli. Alla minaccia reagì prontamente Cuba, che spedì in Africa 18.000 uomini.
Tuttavia dopo le prime battaglie, la tensione si fece più diradata. Forte era la presa dell’MPLA sul paese e nulla lasciava presagire una sua sovversione. Nulla fuorché un colpo di stato ordito all’interno dei suoi ranghi. Ci provò Nito Alves, uomo forte del movimento nonché ministro degli interni angolano. Nito Alves godeva di ampio consenso ed era a capo di una corrente politica interna all’MPLA: i Nitistas. Captando la pericolosità della situazione (Alves si era recato in Unione Sovietica e Mosca sembrava averlo incensato), Agostinho Neto cercò di indebolire la posizione di Alves, prima di tutto strappandogli il dicastero. I Nitistas attuarono in tutta risposta un golpe nel 1977. Fu un fallimento su tutti i fronti, che portò solo a delle spaventose purghe interne al paese, eseguite dai fedeli di Agostinho Neto e dai cubani. Morirono all’incirca 30.000 persone, uccise indiscriminatamente tra civili, funzionari pubblici e miliziani.
Intorno alla metà degli anni ’80 la guerra civile angolana si infiammò di nuovo dopo anni di precaria quiescenza. Uno dei fattori che portò al riaccendersi del conflitto fu l’avvicinamento tra Jonas Savimbi (leader dell’UNITA) e Washington. Popolari sono le fotografie che lo ritraggono seduto accanto a Ronald Reagan nel 1986. Quella fu una lode al pragmatismo, perché Savimbi, pur di cercare il sostegno dell’Occidente contro i comunisti angolani, spogliò il suo movimento della precedente ideologia maoista, trasformando l’UNITA in una forza liberal-conservatrice. Preparativi politici, diremmo oggi, al “grande evento” del 1988.
In quell’anno in un’Angola devastata e afflitta come non mai, andò in scena la battaglia di Kuito Kuanavale. Si trattò del più massiccio scontro bellico subsahariano successivo alla Seconda guerra mondiale e del secondo più grande del continente africano dopo El-Alamein. Nei fatti fu un’azione delle forze anticomuniste contro la base dell’MPLA localizzata a Kuito Kuanavale, nell’estremità sudorientale del paese. Tutto fu tranne che uno scontro conclusosi con un esito certo e definito; ambo le parti dichiararono di aver avuto la meglio, ma la maggior parte degli osservatori neutrali sostenne che la battaglia si risolse in uno stallo. Quello che invece risulta essere certo è il dramma suscitato dall’episodio, disgrazia giustificata dalla violenza degli scontri e dall’utilizzo di armi non convenzionali (il gas nervino da parte dei cubani, ad esempio).
Tale fu l’orrore generato dalla battaglia di Kuito Kuanavale che gli intermediari neutrali alla vicenda convinsero le fazioni a trovare una tregua. Esponenti dell’MPLA, del governo cubano e di quello sudafricano si incontrarono a New York e il 22 dicembre 1988 firmarono un accordo di pace tripartito. Esso avrebbe sancito il ritiro delle forze extranazionali (principalmente cubane e sudafricane); l’indipendenza della Namibia e l’entrata in gioco dei caschi blu dell’ONU (risoluzione 626) come forza di peace-keeping. Gli accordi di New York sortirono un effetto sull’intensità dei combattimenti, che diminuì ma non svanì del tutto.
Negli anni ’90 Savimbi continuò a cercare l’appoggio degli alleati occidentali, primo fra tutti quello americano. La presidenza Bush senior (1989-1993) confermò il supporto degli States, anche se questo risultava essere meno decisivo rispetto al passato. Di converso l’MPLA, retto da José Eduardo dos Santos, mutò volto, abbandonando il marxismo-leninismo e abolendo il regime monopartitico nel paese. L’Assemblea nazionale dichiarò l’Angola “uno Stato democratico basato sul Rule of Law”. Eppure non pochi osservatori storsero il naso, definendo il cambiamento più di facciata che altro.
La guerra civile sembrò sul punto di terminare nel 1991 quando dos Santos e Savimbi firmarono gli accordi di Bicesse. La transizione democratica dell’Angola e l’integrazione delle milizie UNITA nell’esercito regolare erano all’orizzonte. Peccato che tutto andò in frantumi con le prime elezioni presidenziali (teoricamente) libere della storia angolana, tenutesi nel 1992. Savimbi non accettò la sconfitta. Il suo nome registrò il 40% circa delle preferenze, contro il 49% del rivale dos Santos. Respingendo i risultati, il leader dell’UNITA minacciò di far risprofondare l’Angola nell’angosciante guerra civile. Con la fiamma della democrazia che soffocava più velocemente del previsto, le violenze fecero scorrere di nuovo il sangue sulle strade di Luanda e altrove nella nazione. I governativi massacrarono i sostenitori dell’UNITA e del più defilato FNLA: nel novembre del 1992 l’esercito uccise più di 10.000 affiliati in quello che è passato alla storia come il massacro di Halloween.
Il conflitto quindi non solo si riaccese, ma lo fece in tutta la sua catastrofica brutalità. Si stima che le fazioni nemiche falcidiarono altre 120.000 vittime nell’arco di due anni, fino al 1994. Qualche tentativo di riappacificazione vi fu, ma né l’UNITA, né l’MPLA intendevano retrocedere dalle loro incrollabili posizioni. Il conflitto perdurò anche per via dei finanziamenti ricevuti soprattutto da Savimbi per la vendita illecita di diamanti.
Il 22 febbraio 2002 durante uno scontro a fuoco Jonas Savimbi rimase ucciso. Chi l’avrebbe dovuto succedere morì qualche giorno dopo. I nuovi rappresentanti dell’UNITA optarono per un immediato cessate il fuoco. Si procedette con la smilitarizzazione del movimento e con la sua trasformazione a partito politico. Dopo 26 lunghi anni di combattimenti, un milione di vittime all’incirca, quattro milioni di sfollati, danni socio-economici di gravissima entità, l’Angola conobbe la pace.
La guerra civile angolana ha avuto un impatto duraturo sul paese e sulla sua società. Se da un lato ha contribuito a consolidare il potere dell’MPLA, i cui leader hanno governato il paese ininterrottamente dal 1975 fino ad oggi, dall’altro ha lasciato cicatrici indelebili nella memoria collettiva nazionale. Il conflitto ha dimostrato come le rivalità tra superpotenze possano avere effetti devastanti su paesi già fragili e vulnerabili, prolungando e intensificando dispute locali a scapito delle vite di milioni di persone.