I secoli medievali sono tra i più convulsi e al contempo affascinanti dell’intera storia. Questi due aggettivi si legano benissimo ad una popolazione in particolare: i Mongoli. Un popolo in grado di spaventare il mondo intero e di gettare scompiglio dovunque passasse. Celeberrima è la vicenda che riguarda il viaggio di Marco Polo, ma siamo sicuri che prima di lui non ci fu qualcun altro? La risposta è evidentemente negativa. La risposta è Giovanni de Pian del Carpine.
Giovanni era un frate francescano molto esperto che aveva già ricoperto diversi incarichi di notevole importanza in giro per il mondo. Nel 1245, quando intraprese il suo viaggio verso la Mongolia, aveva già 60 anni, una veneranda età per l’epoca, ma questo non lo dissuase dal suo obiettivo. Partì alla volta dell’estremo oriente, verso le incontaminate steppe euroasiatiche.
Nel suo viaggio non fu assolutamente da solo. Era impensabile all’epoca affrontare un percorso del genere in autonomia, anche nelle più rosee aspettative. Per volere del re boemo Venceslao I, lo accompagnò un altro francescano detto Stefano di Boemia. Al loro fianco vi era Benedetto Polono, un terzo frate che avrebbe fatto da interprete grazie alle sue grandi conoscenze linguistiche.
Ma arriviamo ad uno dei due cuori della faccenda: perché compivano questo viaggio? Quale grande motivazione li spingeva verso est? Tutto aveva a che fare col pontefice Innocenzo IV. Quest’ultimo, per paura di una possibile invasione mongola, mandava un’ambasceria a consegnare una lettera. Questa diceva che i Mongoli, come tutti gli altri popoli, dovevano sottostare al potere divino, nettamente superiore a quello temporale, secondo la visione del papa.
La domenica di Pasqua del 1245, gesto carico di significato, la comitiva partì. Dopo non molto tempo, Stefano si ammalò e lasciò il viaggio. Erano adesso solo frate Giovanni e frate Benedetto. E la singolare lettera di Innocenzo IV, chiaramente. Tagliando corto sulle vicende intermedie, dopo oltre 4.800 km percorsi in circa tre mesi, i due vennero arrestati ed il 24 agosto comparirono al cospetto del Gran Khan Guyuk.
Sappiamo dall’importantissimo resoconto del viaggio di Giovanni, l’Historia Mongalorum, che il Khan non contemplò minimamente l’idea di eseguire ciò che il papa chiedeva. In tutta risposta scrisse egli stesso una lettera, tradotta in tre lingue diverse, da presentare al pontefice, in cui diceva di essere lui stesso il “flagello di Dio“, non avendo dunque bisogno dell’appoggio del papa. Al contrario, anzi, invitava il papa a giurargli fedeltà. Una sorta di cambiogiro di UNO. Una risposta consegnata dai frati che intrapresero poi il viaggio del ritorno.