Almanacco del 7 aprile, anno 1920: un corpo composto da 44 Regi Carabinieri apre il fuoco contro manifestanti riunitisi in Piazza Grande (Modena). La morte di cinque persone e il ferimento di una quarantina suscita sdegno nell’opinione pubblica e in parlamento, ma i responsabili rimarranno impuniti nonostante gli accertamenti e le future inchieste. Questa è la storia dell’eccidio di Piazza Grande.
Quel 7 aprile 1920 Modena si blocca totalmente; a paralizzarla è uno sciopero generale indetto dalla Camera del Lavoro dopo la strage di San Matteo della Decima (avvenuta due giorni prima, in cui 8 manifestanti trovano la morte, sempre per dei colpi sparati dalle forze dell’ordine). Una prima adunata si svolge in largo Garibaldi, in piena mattina, senza incidenti. Gli organizzatori, prevalentemente socialisti ed anarchici, organizzano una seconda protesta nel tardo pomeriggio. Sul numero dei partecipanti le fonti sono discordi: la questura indica all’incirca 3.000 individui. Il comitato organizzativo parla di 15.000 anime. Quale che sia la verità, il prefetto capisce come largo Garibaldi sia fin troppo piccolo per accogliere quelle voci, così accetta la richiesta di dirottare il corteo verso Piazza Grande.
Ad attendere la folla ci sono le forze dell’ordine schierate a protezione del palazzo comunale. Per lo più sono giovani ausiliari inquadrati tra gli artiglieri del 2° Reggimento Pesante Campale e fanti del 36° Reggimento Artiglieria. La porzione centrale e maggiormente sollecitata è quella dei Reali Carabinieri, in numero di 44. Alla testa dell’intero dispositivo di sicurezza c’è il vicequestore Giuseppe Morelli, mentre al comando del solo gruppo di carabinieri troviamo il capitano Giulio Gamucci. La manifestazione, per quanto sonora, non è violenta. In un dato momento, la linea frontale del corteo, composto da reduci ed invalidi di guerra, avanza verso le forze dell’ordine esponendo una bandiera rossa con sopra scritto “Giù le Armi“. Il messaggio è chiaro, si vuole esprimere un disagio pur non finendo sotto i colpi dell’Arma, come accaduto due giorni prima.
Lo stendardo cremisi è la causa della tragedia che si sta per verificare. Il vento la spinge di fronte le teste dei carabinieri. Il vicequestore Morelli ordina il sequestro della bandiera, ma la folla con un veloce passamano la nasconde tra file arretrate. Il nervosismo a questo punto è lampante e gioca un bruttissimo scherzo. Senza che ci sia un ordine in merito, alcuni uomini in uniforme sparano, ferendo circa quaranta persone e ammazzandone uno, Evaristo Rastelli, venditore ambulante colpito alla testa. Altri tre, Ferdinando Gatti, Linda Levoni e Antonio Amici, moriranno nei giorni successivi. La quinta vittima, Stella Zanetti, si spegnerà nel settembre per le ferite riportate quel 7 aprile.
I colpi di pistola e moschetto dissipano le fila della protesta, che già stavano indietreggiando. Secondo la versione riportata da alcuni ufficiali sul posto, i carabinieri avrebbero sparato udendo un colpo di pistola provenire dalla folla. Suddetta versione non solo non troverà riscontro, ma verrà smentita dal generale Luigi Gaudino, incaricato dal Ministero dell’Interno di aprire un’inchiesta. Prima di approfondire la relazione Gaudino, vorrei tornare un attimo sull’accaduto e sulla sua conclusione. I manifestanti lanciarono delle bottiglie di vetro in risposta ai proiettili sparati (non prima, come affermato da alcuni sottufficiali). Il capitano Gamucci prima ordinò la ritirata, poi cambiò idea, volendo tornare in Piazza Grande ma vedendosi respinto da Morelli, il quale contrordinò di restare in caserma. La piazza si ripopolò di manifestanti.
Subito l’eco dell’eccidio di Piazza Grande sconvolse Modena e l’Italia intera. Le sinistre condannarono il gesto e addirittura le ali estreme (prevalentemente anarchici) promisero vendetta. I cattolici imputarono la colpa all’imprudente governo, reo di non saper gestire quei “mal di pancia proletari”. Eppure non vi fu diretta condanna rivolta agli esecutori di quella strage. Le destre puntarono il dito contro il corteo, accusandolo di sovversione e istigazione, poggiando le basi dell’incriminazione sugli insulti dei dimostranti (che vi furono, ma ciò non giustifica un bel niente) rivolti agli uomini del Regio Esercito e ai Reali Carabinieri.
L’8 aprile, Luigi Gaudino invia l’esito della sua inchiesta a Roma, concludendo come la risposta dei carabinieri sia stata “eccessiva e non giustificata da plausibili motivi”. La relazione Gaudino conferma le innumerevoli testimonianze che scagionano i manifestanti e rigetta le sparute confessioni degli uomini dell’Arma. Le responsabilità della strage sono delineate, ma al Tribunale militare di Venezia vengono denunciati solo i “fatti”. Così si chiede di delineare l’identità dei responsabili al Tribunale supremo di guerra e marina. Quest’ultimo manda in archiviazione il caso. Gli ufficiali, quel giorno al comando delle operazioni, vengono allontanati o pensionati. Cadde nel vuoto l’appello di chi quel 7 aprile manifestò contro uno Stato violento, sentendosi vittima due volte, prima e dopo gli eventi di Piazza Grande.