Almanacco del 4 maggio, anno 1949: a Roma il governo italiano, dopo accesissimi dibattiti, ratifica l’ingresso del paese nel Patto Atlantico, convalidando la firma apposta da De Gasperi un mese prima in quel di Washington (4 aprile 1949). L’Italia trovò in quel giorno un posto nel mondo, schierandosi apertamente ad ovest della cortina di ferro. Una scelta che avrebbe comportato la netta contrapposizione all’ancora ideale Patto di Varsavia, divenuto realtà tangibile solo dalla primavera del ’55.
Come anticipato, l’ultima presa di posizione del 4 maggio non si palesava in un’ambiente totalmente favorevole, per non dire compiacente. Tutt’altro, la polarizzazione globale si rifletteva in Italia meglio che in qualunque altro posto del mondo. Il Bel Paese era spaccato in due, socialmente prima ancora che politicamente. Le sinistre godevano di un bacino elettorale ampissimo per gli standard atlantici; le destre dovevano fare i conti con un passato ancora fin troppo fresco. Al centro c’era quell’ingranaggio acchiappa-consensi, noto come Democrazia Cristiana, che per quasi mezzo secolo deterrà le redini – non solo politiche – della nazione.
A ciò si aggiunga un contesto internazionale non propriamente disteso, anzi, impregnato delle logiche ferree della Guerra Fredda. La smilitarizzazione post-ventennio della penisola andava contro gli interessi americani nella regione. Il Piano Marshall irradiava le finanze statali ma in cambio pretendeva (ed otteneva) qualcosa, ovvero la vicinanza politica prima ancora che ideologica alla grande Alleanza Atlantica che stava per nascere. In questo esatto frangente si poté notare l’agitazione dei vertici politici italiani. Togliatti e Nenni volenterosi di ingraziarsi la stampa pur di sventare il patto con l’Occidente. De Gasperi, assoluto leader democristiano, più attento alla costruzione di un’impalcatura diplomatica per arrivare “pronti” alla firma del 4 aprile 1949.
L’agitazione, la fretta di concludere qualcosa, nasceva anche in virtù delle notizie che giungevano progressivamente da est. Il vento sovietico aveva soffiato forte, ma davvero forte, su Praga nel 1948. Stalin digrignava i denti e mostrava i muscoli col blocco di Berlino. Roma volgeva lo sguardo verso l’Alto Adriatico, Trieste per l’esattezza. Un territorio: due zone distinte, una delle quali sotto formale amministrazione jugoslava. Tito e il socialismo erano alle porte insomma, mentre il Benelux, Regno Unito e Francia davano vita all’Unione Europea Occidentale (UEO), agglomerato di interessi militari su scala internazionale. E l’Italia?
L’11 marzo 1949 il Consiglio dei ministri immerse il piedino nell’acqua, constatando un certo calore; queste le parole emerse e subito riportate dalla stampa: il governo si sarebbe pronunciato “in senso unanime per l’accessione in via di massima al Patto atlantico”. Un’alleanza strategica, di natura difensiva, che avrebbe comportato una mutua assistenza tra contraenti in caso di attacco subito, fondata sulla condivisione di piani, strutture e tecnologie militari nonché logistiche. Un grande e grosso piano di sicurezza, uno scudo dietro il quale difendersi e grazie al quale poter offendere, seppur velatamente. Erano le logiche della Guerra Fredda, le trame di un mondo diviso.
Oltre il dato geopolitico, è interessante calarsi per un momento nel concitato marasma politico che contraddistinse le più alte istituzioni del paese. Il primo voto alla Camera fu favorevole all’adesione, nonostante qualche remora scudocrociata (Dossetti, Gui e Del Bo contrari; Gronchi astenuto). Il Senato si pronunciò positivamente il 27 marzo. Perciò il 4 aprile avvenne la firma sull’accordo di Washington e il 4 maggio il governo italiano ratificò l’adesione alla NATO. E fu proprio allora che l’Italia scelse da che parte stare.