Almanacco del 31 maggio, anno 455: il popolo romano inferocito condanna a morte per lapidazione l’imperatore Petronio Massimo. All’indomani i Vandali di Genserico avrebbero saccheggiato la città di Roma, sguarnita e lasciata a se stessa. La storia dell’imperatore Petronio Massimo è molto breve e ricolma di misfatti e pecche, tanto di valutazione del contesto politico quanto di superbia. Ma la sua ascesa al potere partiva da lontano ed è giusto ricordarla, seppur brevemente, nelle prime battute.
Petronio Massimo nacque nel 396. Facente parte di una delle più insigni famiglie dell’aristocrazia romana, la gens Anicia (nella sfera del potere romano addirittura dalla fine del IV secolo a.C.!), Petronio si rese protagonista di un lungo e prestigioso cursus honorum, anche se non del tutto per suo merito. Le capacità economiche della sua famiglia aiutarono parecchio durante la scalata al patriziato. Massimo servì sotto gli imperatori Onorio, l’usurpatore Giovanni Primicerio e Valentiniano III. Ricoprì la carica di pretore, di tribunus et notarius e in seguito, poco più che diciottenne, svolse l’ufficio di comes sacrarum largitionum, ovvero di ministro delle finanze imperiali.
Tra il 420 e il 439 riuscì ad elevarsi come praefectus urbis per ben due volte, così come in una duplice occasione fu Console d’Occidente (avendo come colleghi prima Teodosio II e poi Flavio Paterio, non due qualunque ecco). Nominato patrizio nel 445, Petronio Massimo raggiunse l’apice della sua carriera, figurando come uno dei senatori più prestigiosi. Mancava solo una spinta per dissetare l’ambizione dell’uomo, ad esempio l’avrebbe aiutato l’assassinio dell’allora imperatore Valentiniano III (con il quale non andava particolarmente d’accordo per delle questioni d’amore) e l’annullamento dello strapotere esercitato da Flavio Ezio, magister militum e vero uomo forte del momento. Tra il 454 e l’anno successivo, il 455, entrambi morirono per mano di assassini.
Sebbene le fonti non indichino mai Petronio Massimo come mandante dei sicari, è facile pensare che non fosse quantomeno estraneo alle due dipartite. Ancor più semplice ipotizzare che dietro la morte dell’imperatore ci fosse un suo diretto coinvolgimento. Sì, perché quando si creò il vuoto di potere, fu il più lesto ad accaparrarsi il favore della corte imperiale ravennate e del senato a Roma con elargizioni di denaro e favori. Battuta la concorrenza di Maggioriano (nuovo comandante dell’esercito e futuro imperatore) e Massimiano (guardia del corpo di Ezio), Petronio Massimo si insediò il 17 marzo 455. Mancava poco meno di due mesi al 31 maggio.
Il nuovo imperatore si rese subito impopolare. Perdonò i sicari di Valentiniano – cosa insolita per un uomo obbligato ad onorare la memoria dei predecessori secondo il costume romano. Senza rispettare il periodo di lutto, volle legittimare la sua posizione sposando la vedova di Valentiniano, ovvero Licinia Eudossia. Piccola curiosità: quest’ultima fece di tutto per far eleggere il generale Maggioriano, non riuscendo nell’impresa. Massimo legò ancor di più le due famiglie, facendo sposare suo figlio Palladio con la primogenita di lei Eudocia. In campo economico ordinò il conio di un numero ingente di monete d’oro (svuotando ancor di più una riserva aurea in precaria condizione) per donarle ai legionari. Così facendo l’imperatore cercò di puntellare il suo dominio, sulla quale regolarità c’era più di qualche dubbio.
Fu proprio la consorte, irata dalla prepotenza di Petronio Massimo, a decretare la sua fine. Licinia Eudossia chiamò a Roma Genserico, re dei Vandali. Con il sovrano egemone del Mediterraneo occidentale esisteva un buon rapporto. Addirittura Valentiniano, quando ancora al potere, volle imbastire un matrimonio tra sua figlia e il primogenito di Genserico, anche se poi non si fece nulla. Pur di spodestare Petronio, Licinia fu disposta a correre il rischio della valanga vandala. Il re vandalo chiese a Massimo le principali isole del Mediterraneo (Baleari, Sardegna, Corsica e Sicilia). All’ovvio rifiuto dell’imperatore rispose mettendosi alla testa del suo temuto esercito in direzione di Roma.
Quando la notizia giunse dalle parti dell’Urbe, Petronio Massimo, privo di un esercito e di risorse per resistere ad un assedio, optò per la fuga. Ancora una volta le fonti divergono: forse i suoi servi, forse le guardie, probabilmente il popolo inferocito fermò l’imperatore. Petronio Massimo trovò la morte violenta per lapidazione il 31 maggio 455. Due giorni dopo i Vandali arrivarono a Roma e vi entrarono senza colpo ferire. In virtù degli accordi stretti con il papa Leone Magno, i razziatori né uccisero né appiccarono fuochi, ma in 14 giorni Roma venne svuotata delle sue ricchezze.