Almanacco del 30 marzo, anno 1867: la Russia dello zar Alessandro II vende il territorio dell’Alaska agli Stati Uniti d’America. L’evento, di cui allora forse non si comprese la portata, passerà alla storia come “Alaska Purchase“, appunto “Vendita dell’Alaska”. Questa storia, che conosce il suo culmine in una data esatta della seconda metà dell’Ottocento, in realtà affonda le sue radici in un tempo leggermente più remoto. Ripercorrerò in modo rapido e conciso le principali tappe che portarono l’autocrazia zarista a (s)vendere quella gelida e desolata terra agli USA. Un affare che all’epoca sembrò vantaggioso per tutti, ma che si risolse in una schiacciante “vittoria” economica e diplomatica per Washington.
Sebbene il Mare Artico ad est fosse navigato per la prima volta nel 1648 dall’esploratore russo Semën Ivanovič Dežnëv (il quale non inviò i resoconti dettagliati della spedizione al governo centrale, condannando l’impresa all’oblio della memoria per più di un secolo), la colonizzazione moscovita dell’estremo oriente siberiano e dell’Alaska iniziò nel 1725. Ad eseguire gli ordini dello zar Pietro il Grande ci pensò l’ufficiale della marina russa Vitus Jonassen Bering. Se il nome vi dice qualcosa, ci sarà un motivo. Alla metà del XVIII secolo i russi stabilirono le prime colonie commerciali fisse in territorio americano. Gli avamposti erano scarsamente popolati e servivano per lo più alla raccolta, lo stoccaggio e lo smercio di pellame, e solo in secondo luogo di legname.
Si dovrà attendere il 1799 per chiamare ufficialmente quella terra con un nome russo. Tramite decreto, l’autocrate Paolo I rivendicò tutti i territori americani a nord del 55° parallelo. La Compagnia commerciale russo-americana ottenne il monopolio dei commerci nei suddetti territori, che assunsero il nome di “America russa”. L’impero zarista scelse come capitale Novo-Archangelsk, nota ai più come Nuova-Arcangelo (oggi Sitka). Piccola digressione demografica che ci aiuta a comprendere meglio il valore che al tempo i russi attribuivano a quelle gelide lande. Nel 1867 l’Alaska era casa per meno di 3.000 russi e meticci. I registri coloniali zaristi indicano la presenza di circa 8.000 aborigeni e in modo approssimativo stimano come in quel posto vivano circa 80.000 individui di etnia Inuit. In totale i villaggi riconosciuti dall’amministrazione della Compagnia russo-americana erano 23, per lo più sulle isole e sulla costa meridionale.
Dopo l’ampia premessa, torniamo agli eventi preannunciati nel primo paragrafo. Perché la Russia sentì la necessità di cedere quei territori? La risposta è prima di tutto nelle sottotrame della diplomazia internazionale e in parte nelle difficoltà finanziarie che in modo cronico aggravano lo Stato russo. L’impero temeva l’ingombrante presenza inglese nel settentrione americano, espressione della quale era il Canada alle dipendenze di sua maestà Vittoria. Londra era fortemente avversa a San Pietroburgo. Quindi Alessandro II Romanov, temendo di perdere l’Alaska senza un compenso economico, intavolò le trattative con gli USA, considerati meno pericolosi del Regno Unito e soprattutto estranei alle questioni europee. Anzi, gli statunitensi seguivano alla lettera la Dottrina Monroe, per la quale l’egemonia sul continente doveva essere un’esclusiva di Washington e di nessun altro.
L’affare dell’Alaska era un proverbiale win-win per le parti in gioco. Il barone russo Eduard de Stoeckl e il Segretario di Stato americano William H. Seward danno il là alle trattative durante i primi di marzo 1867. Si raggiunge l’accordo nella notte tra il 29 e il 30 marzo. Intorno alle 4 del mattino c’è la firma ufficiale. Sulle carte (oggi conservate ed esposte) sono presenti i dettagli della vendita: l’impero zarista stabilisce un prezzo d’acquisto pari a 7.200.000 dollari americani (141 milioni di dollari col cambio del 2023) per un territorio che si estende per 1.600.000 km². Un veloce calcolo indica come la Russia abbia venduto l’Alaska a poco più di 4 $/km².
I giornali statunitensi si beffano dell’accordo raggiunto, ritenendolo insensato, di poco conto. Il New York Tribune scrive: “abbiamo acquistato un mondo selvaggio e gelato… l’Alaska è la follia di Seward” o ancora la si definisce come “la ghiacciaia di Seward; lo zoo degli orsi polari di Andrew Johnson”. Dal punto di vista prettamente strategico, l’acquisto aveva una logica ben precisa. Da una parte si limitava a nord l’eventuale espansionismo anglo-canadese (con i britannici che durante la Guerra Civile avevano sostenuto apertamente i confederati) e dall’altra si ribadiva l’impegno ideologico americano secondo i dettami della già citata Dottrina Monroe (L’America agli americani).
Dopo la ratifica del Senato statunitense del 9 aprile 1867 e la transazione effettuata solo l’anno successivo, l’Alaska divenne terra a stelle e strisce. Sullo scadere del XIX secolo vi si scoprirono immensi giacimenti aurei, attirando cacciatori d’oro da tutto il mondo. Nel 1968 compagnie petrolifere comunicarono come una spedizione perlustrativa avesse individuato il più grande giacimento di petrolio e gas naturale di tutto il Nordamerica.