Almanacco del 30 giugno, anno 1934: ha luogo una sanguinosa e violenta epurazione interna al partito (NSDAP) voluta dal Führer e perpetrata da squadre congiunte di SS e Gestapo. A cavallo tra il 30 giugno ed il 1° luglio tutti i vertici delle SA, compreso il suo leader Ernst Röhm, troveranno la morte in quella che passerà alla storia come la “Notte dei lunghi coltelli”.
Prima del 29 gennaio 1933, ovvero all’indomani del passaggio della cancelleria nelle mani del capo del partito nazionalsocialista (anche detto “l’innominabile”), egli non poteva di certo dirsi detentore di un potere incontrastato, assoluto e totalitario. Non solo: il gabinetto di governo era a maggioranza conservatrice e non del tutto intriso degli ideali estremisti che invece scuotevano l’animo nazionalsocialista. Così il Führer iniziò a vedere attorno a sé null’altro che nemici da emarginare (nel migliore dei casi) o eliminare. Uno di questi era senza dubbio Ernst Röhm, capo delle temibili SA (Sturmabteilung, ovvero “squadre d’assalto).
Le SA rappresentavano l’organizzazione paramilitare interna al partito più rilevante in termini quantitativi e qualitativi (con più di tre milioni di militanti). Un potenziale avversario del domani per il cancelliere, il quale già dalla fine del ’33 iniziò ad escogitare un piano per estrometterlo. Si delineò presto una strategia. Ma prima un passo indietro: chi era Röhm? Amico di lunga data del capo di Stato tedesco, si trattava dell’unico in grado di riferirsi al Führer col solo nome. Röhm sentiva nell’aria un incrinamento dei rapporti. Ben presto iniziò ad accusare (neppure troppo velatamente) il NSDAP di essere in combutta con le forze tradizionali del paese e dunque di star tradendo l’anima originale del nazionalsocialismo.
Uno degli avversari – si direbbe della prima ora – del potente capo delle SA era Hermann Göring. Nessuna sorpresa; che non scorresse buon sangue tra i due era il segreto di pulcinella. Al contrario, neanche il più sospettoso tra gli alti vertici di partito avrebbe mai immaginato un’avversione di Heinrich Himmler nei confronti di Röhm. Il primo manifestò sempre nei confronti del secondo atteggiamenti distensivi di fiducia e stima. Ma quando Himmler comprese di poterlo estromettere dal gioco e accrescere così il suo spessore agli occhi degli altri, non se lo fece ripetere due volte.
La macchina del complotto si mise in moto tra il dicembre 1933 e il gennaio dell’anno successivo. Da una parte venne chiesto a Reinhard Heydrich, allora capo delle SD (servizi segreti in seno alle SS) di raccogliere quante più informazioni possibili per incriminare Röhm e le sue camice brune. Dall’altro lato si agì con una sorta di atteggiamento passivo-aggressivo. Durante un vertice tra l’esercito e i corpi paramilitari, Röhm fu costretto a firmare un documento in cui riconosceva la subordinazione delle sue SA a favore del Reichswehr, le forze armate. Nonostante la sottoscrizione, il più alto rappresentante delle SA per sua stessa ammissione non avrebbe rispettato l’accordo.
Rese pubbliche le accuse – false e pretenziose – nei confronti delle SA, scattò l’Operazione Colibrì, evento anche noto come “Röhm-Putsch”, secondo la propaganda nazionalsocialista. La sera del 30 giugno il cancelliere del Reich si presentò di persona a Monaco per arrestare Röhm e altri dirigenti delle squadre d’assalto. Nella località bavarese di Bad Wiessee un blitz delle SS stroncò nel sangue una riunione delle SA. Lì trovò la morte Karl Ernst, alto comandante delle camice brune nonché braccio destro di Ernst Röhm. Gli esecutori materiali della purga imprigionarono a Stadelheim (Monaco) il capo delle SA, fucilandolo il 1° luglio 1934.
Nella “Notte dei lunghi coltelli” troveranno la morte dalle 150 alle 200 persone. Una stima precisa non esiste e quella fornita dalla cancelleria (che pure parlava di 70 esecuzioni) non rendeva giustizia alla violenza dell’accaduto. Il Führer quasi dopo due settimane dall’eccidio, pronuncerà un discorso in cui dichiarerà: “Ho dato ordine di cauterizzare la carne cruda delle ulcere della nostra vita domestica per far sapere alla nazione che la sua esistenza, che dipende dalla sicurezza e dall’ordine interni, non può essere impunemente minacciata da nessuno. E per far sapere che nel tempo a venire, se qualcuno alzerà la mano per colpire lo stato, la morte sarà il suo premio”.