Almanacco del 29 luglio, anno 1993: la Corte Suprema d’Israele assolve da ogni accusa il collaborazionista, nonché ex guardia delle SS presso i campi di sterminio di Sobibor, Majdanek e Flossenbürg, John Demjanjuk (nato Ivan Demjanjuk). La sua storia giudiziaria tenne alta l’attenzione mediatica mondiale per più di tre decenni. Si tratta di un caso “secondo” solo a quello di Adolf Eichmann, anch’egli processato e condannato alla pena capitale dalla corte israeliana. Ma se il Processo Eichmann è passato giustamente alla storia anche per via del suo valore simbolico, quello di Demjanjuk non gode oggi di particolare riconoscimento. I motivi alla base del suddetto disinteresse possono essere molteplici ma risultano incomprensibili se prima non viene fatto cenno alla storia (conosciuta e documentata) di Ivan, poi John, Demjanjuk.
Nato il 3 aprile 1920 in quella che allora era l’Ucraina sovietica, egli prima lavora come autista di trattori e poi finisce per arruolarsi neppure ventenne nell’Armata Rossa. Nel maggio del 1942 le truppe tedesche lo fecero prigioniero dopo la battaglia di Kerch. Ed è sui successivi tre anni, fino al termine del secondo conflitto mondiale, che tanto si è dibattuto nei tribunali di ben tre paesi diversi. Su questa contesa giudiziaria torno tra pochissimo. Nel secondo dopoguerra Demjanjuk trascorre degli anni in Germania, prima di emigrare negli USA. Qui cambia nome e trova lavoro presso un impianto della Ford. Otterrà la cittadinanza nel 1958 e la sua vita scorrerà tranquilla fino alla metà degli anni ’70.
Il Dipartimento di Giustizia americano inizia le indagini su Demjanjuk nel 1975 e avvia le pratiche per la de-naturalizzazione due anni dopo, nel 1977. Il perché è presto noto. Si pensa che John Demjanjuk abbia falsificato i documenti per l’immigrazione non volendo rivelare il suo scomodo passato nel campo di Treblinka. Ad avvalorare questa tesi ci sarebbero delle testimonianze dirette di alcuni ebrei sopravvissuti, i quali sosterrebbero di riconoscere quel Demjanjuk, un tempo noto nel campo di sterminio come “Ivan il Terribile”. L’Ufficio per le Indagini Speciali (OSI) prende in carico l’inchiesta. Nell’81 l’accusato perde la cittadinanza statunitense (non sarà la prima volta, lo anticipo). In questo esatto momento il governo d’Israele presenta domanda per l’estradizione. L’intenzione è quella di ripetere una seconda esperienza stile Eichmann. Gli USA accettano e il 16 febbraio 1987 si apre il processo a Gerusalemme.
La tesi accusatoria fonda la propria ragion d’essere su tre specifici punti: 1) Al momento della cattura si sarebbe offerto come volontario per rientrare nelle SS ausiliare. 2) In seguito avrebbe lavorato come istruttore di polizia ausiliaria presso il campo di Trawniki, non lontano da Lublino, in Polonia. 3) Effettivamente Demjanjuk si sarebbe spostato a Treblinka, in cui avrebbe trovato occupazione nella manutenzione dei motori diesel usati per pompare monossido di carbonio nelle camere a gas del campo. Da qui “Ivan il Terribile”.
Sebbene importanti prove suggeriscano (ma non provino) la tesi dell’accusa, il caso non si sblocca. Dal canto suo Demjanjuk, 67enne al momento del processo, si difende asserendo come all’epoca dei fatti fosse prigioniero nel vicino campo di Chełmno. Altro elemento che non passa inosservato e sul quale l’opinione pubblica si concentra in maniera compulsiva riguardo un tatuaggio. L’ex custode ha il proprio gruppo sanguigno tatuato sull’avambraccio sinistro. Le SS Totenkopf (Teste di Morto) dal 1941 iniziarono ad adottare questa pratica, anche se l’amministrazione nazionalsocialista non la rese mai omologata e sistematica. Perciò il tatuaggio agli occhi dei giudici suggerisce ma non dimostra, nuovamente, la colpevolezza di Demjanjuk. Il 25 aprile 1988 la giuria si pronuncia: John Demjanjuk è colpevole dei crimini a lui ascritti. La sentenza lo condanna alla pena capitale. Non accadeva dal 1967, dai tempi di Eichmann.
Ovviamente Demjanjuk presenta istanza d’appello, allungando l’iter di qualche anno. La mossa si rivolge a suo favore, perché nel 1991 crolla il gigante sovietico. Tutte le carte sino a quel momento secretate diventano di dominio pubblico. In effetti dagli archivi del KGB di Kiev qualcosa esce, tanto a favore dell’accusa, quanto della difesa. Le carte non parlano di nessun Ivan Demjanjuk, invece sono molto dettagliate le informazioni inerenti tale Ivan Marchenko. Quest’ultimo, ironia della sorte, ha una storia estremamente simile – per certi versi sovrapponibile – a quella di Demjanjuk. Le pagine dell’oramai disciolto KGB riportano in auge la tesi del terribile Ivan responsabile dei motori diesel di Treblinka. Aggiungono inoltre come il sorvegliante ausiliario Marchenko si fosse trasferito a Trieste nel 1944 prima di darsi alla macchia.
Tuttavia le rivelazioni da una parte alimentano l’ipotesi dello scambio d’identità, ipotesi che spingono la Corte Suprema israeliana a pronunciarsi il 29 luglio 1993. Con grande sorpresa la Corte Suprema assolve John Demjanjuk dalle accuse dell’88, pur senza pregiudizio (ovvero demandando, qualora si fosse presentata l’occasione, il giudizio a terzi). La sentenza del 29 luglio 1993 non fu decisiva, ma comunque alimentò ancor di più il dibattito sulla figura – grigia ed Imperscrutabile – del presunto collaborazionista.
Non passa molto tempo che altre rivelazioni riaprono il caso. Questa volta sono gli archivi moscoviti, con il beneplacito della neonata Federazione Russa, ad irrompere sulla scena. Emergono delle carte in cui viene attestata la presenza di Demjanjuk nei campi di sterminio di Sobibor, Majdanek e Flossenbürg. Da una parte si smentisce la presenza dell’imputato a Treblinka, ma dall’altra si apre una nuova pista giudiziaria. Ora, mentre ciò accade, gli avvocati di Demjanjuk fanno leva su un cavillo burocratico per riabilitare la cittadinanza all’assistito. Al contempo il tribunale di Gerusalemme rifiuta la possibilità di perseguire Demjanjuk per il ruolo di quest’ultimo a Sobibor. Oltreoceano non si arrendono tanto facilmente, con l’OSI che torna alla carica forte di un’inedita documentazione.
Nel 2002 il Dipartimento di Giustizia riesce a far revocare nuovamente la cittadinanza a John Demjanjuk. Il provvedimento è definitivo e anticipa l’inizio di un nuovo processo, che si tiene nel 2009 in Germania. L’età avanzata dell’imputato non lascia desistere la giustizia tedesca, la quale presenta 28.060 capi d’accusa di complicità in altrettanti omicidi avvenuti a Sobibor. 16 mesi di udienze bastano alla corte di Monaco per dichiarare colpevole il vecchio Demjanjuk: cinque anni di prigione sono la condanna. Questi non verranno mai scontati, perché un acciaccatissimo John Demjanjuk presenterà ricorso, venendo a mancare il 17 marzo 2012 presso una clinica tedesca. Teoricamente muore da innocente un uomo che in giovinezza si è macchiato di indicibili crimini contro l’umanità.
P.S. Nel caso in cui foste interessati potete trovare su Netflix la serie Tv dedicata ai molteplici processi a carico di John Demjanjuk. Realizzata nel 2019, si intitola “Il boia insospettabile”.