Almanacco del 21 febbraio, anno 1992: il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, forte della risoluzione n. 743 e volenterosa di «creare le condizioni di pace e sicurezza necessarie per raggiungere una soluzione complessiva della crisi jugoslava» istituisce la Forza di protezione delle Nazioni Unite, meglio nota con l’acronimo UNPROFOR. Fu la genesi della più imponente e costosa operazione dei caschi blu nella storia. Nessuno, o quasi, si sarebbe potuto aspettare la pioggia di critiche che di lì a qualche anno avrebbe colpito l’ONU e la sua principale missione di pacekeeping.
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Con la morte di Tito nel 1980, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia entrò in un’interminabile spirale di crisi. Essa fu ravvisabile a più livelli: politica e sociale, non ultima economica e dunque produttiva. I malumori manifestati dalle diverse nazionalità componenti la Federazione, fino ad allora tenuti a bada da una figura simbolica e carismatica quale era Tito, vennero sempre più a galla, sfociando nei primi anni ’90 in delle vere e proprie secessioni. Le prime a compiere il grande passo furono Slovenia e Croazia. La Serbia – detentrici delle redini jugoslave – reagì, schierando l’esercito federale jugoslavo (Jugoslovenska narodna armija, JNA) e richiamando alle armi tutte le componenti ancora fedeli all’unione; vedasi il caso dei serbo-bosniaci. All’orizzonte si scorgeva una guerra violenta, sanguinosa e fratricida.
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L’ONU, preoccupata per l’escalation del conflitto e per le gravi violazioni dei diritti umani, causate sia da una parte che dall’altra, decise di inviare una forza di peacekeeping con l’obiettivo di stabilizzare le aree di conflitto e proteggere i civili. Questo il contesto in cui nacque l’UNPROFOR. La Forza di protezione delle Nazioni Unite constava di 39.000 uomini provenienti da 38 paesi diversi.
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Tuttavia non bisogna cadere nel tranello della generalizzazione, perché i caschi blu operarono in modo distinto (ossia con compiti diversi a seconda del luogo) nel corso della guerra nell’ex Jugoslavia. Infatti il mandato iniziale dell’UNPROFOR riguardava essenzialmente il contenimento dell’escalation militare e il mantenimento di un duraturo cessate il fuoco in Croazia. In seguito, a partire dal 1993, con l’aggravarsi della situazione in Bosnia-Erzegovina il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ampliò il mandato. Oltre all’istaurazione delle “zone di sicurezza”, esso previde:
- La protezione dei convogli umanitari e la distribuzione di aiuti.
- Il controllo del rispetto delle zone smilitarizzate.
- Il monitoraggio dei confini e il rispetto degli accordi di pace temporanei.
- La protezione delle “zone di sicurezza” dichiarate dall’ONU, tra cui Sarajevo, Srebrenica, Tuzla, Bihać, Goražde e Žepa.
Sulla carta il piano poteva apparire ben congeniato. Solo sulla carta, purtroppo. Nell’atto pratico l’UNPROFOR si dimostrò incapace di gestire una situazione così intricata, complessa per sua natura e non interpretabile tramite paradigmi superficiali. Ad un errata capacità di calcolo e previsione, si aggiunsero delle limitazioni intrinseche alla missione di pacekeeping. Alcuni esempi sono ben noti: i caschi blu dovettero obbligatoriamente far fronte a regole d’ingaggio proibitive. Mancò quasi del tutto una coordinazione tra le forze ONU e NATO. Le zone di sicurezza vennero continuamente violate dalle fazioni in guerra senza che i contingenti internazionali potessero farci qualcosa.
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Era questione di tempo prima che suddette limitazioni portassero a qualcosa di grave, anzi, gravissimo. Luglio 1995, massacro di Srebrenica. 8.372 bosgnacchi (bosniaci musulmani) trucidati dal VRS (esercito serbo-bosniaco) con la complicità dei caschi blu olandesi, rei di non essere intervenuti a difesa dei civili. La notizia fa il giro del mondo, per l’ONU è il baratro assoluto.
Dalla sua istituzione del 21 febbraio 1992, alla sua dismissione/accorpamento con la NATO nella tarda estate del 1995, l’UNPROFOR riportò minimi successi e tanti, troppi fallimenti. Per quanto la risoluzione n. 743 del 21 febbraio ’92 si facesse carico di una lodevole iniziativa di pace, i fatti dimostrarono la fragilità dell’ONU in quanto forza d’intervento globale. Una lezione che ancora oggi conserviamo.