Almanacco del 2 marzo, anno 1657: nella città di Edo (odierna Tokyo), capitale dello shōgunato Tokugawa, scoppia un violento incendio che in un arco di tempo relativamente breve spazza via fino al 70% del più popoloso ed esteso centro urbano giapponese. L’evento, passato alla storia come “grande incendio di Meireki” o “incendio del furisode”, causò la morte di circa 100.000 persone, anche se una stima esatta è tutto fuorché semplice da calcolare.

Le prime fiamme si levarono il diciottesimo giorno del terzo anno dell’era imperiale Meireki. Traducendo dal computo tradizionale giapponese a quello occidentale si evince come la conflagrazione avvenne il 2 marzo 1657. Al di fuori della leggenda (la quale vede in un kimono maledetto l’origine dell’incendio) non si conosce esattamente la causa del disastro. Al contrario, gli storici sono abbastanza sicuri nell’individuare nel vecchio borgo di Hongō il punto d’innesco dell’incendio.
Diversi i fattori combinati che portarono al disastro. In primo luogo bisogna tenere a mente il tradizionale principio edilizio nipponico (e più in generale asiatico). Quasi la totalità delle costruzioni presenti nella capitale Edo erano fatte prevalentemente di legno, carta e paglia. Non era certamente d’aiuto il posizionamento ravvicinato degli edifici che, seguendo la logica urbanistica del tempo, forniva ad un potenziale incendio i presupposti per una rapida e distruttiva propagazione. Esattamente ciò che avvenne in quel secondo giorno di marzo del 1657.

Edo, così come il Giappone centro-meridionale, usciva da un lungo periodo di siccità durato – secondo le fonti più attendibili – poco meno di un anno. A completare il mix letale di fattori avversi: in quei giorni soffiarono fortissimi venti che si abbatterono su tutta la cosa orientale dell’Honshū (l’isola più grande dell’arcipelago nipponico). A poco, se non pochissimo, servì l’intervento della Hikeshi (lett. “estintore del fuoco”), la prima squadra antincendio voluta dall’autorità shōgunale 21 anni prima. Quest’ultima mostrò tutti i limiti tipici di un giovane corpo d’intervento specializzato, praticamente senza esperienza, sprovvisto di mezzi e risorse adatte.
Il secondo giorno, dopo che il lato sud della città poté dirsi completamente intaccato dalle fiamme, i venti spostarono il fuoco sul centro della capitale. L’incendio si fece velocemente strada verso il castello di Edo, residenza del quarto shōgun Tokugawa Ietsuna. Il moto delle fiamme distrusse le abitazioni che circondavano il principale mastio cittadino, tutte appartenenti all’alto notabilato. Il numero elevato di vittime fu causato anche dalla fuga di massa verso il fiume Sumida. Qui molte persone rimasero intrappolate tra le fiamme e morirono soffocate, o peggio, bruciate vive.

Il terzo giorno, ossia il 4 marzo, i forti venti si placarono e di conseguenza l’incendio smise di ardere quanto di intatto era rimasto. Tuttavia il fumo, denso e asfissiante, rese impossibile per svariati giorni ogni azione di salvataggio o ricostruzione. Terminata anche questa fase, il governo incentivò nell’immediato l’opera di restauro urbanistico, che riguardò – come detto in apertura – quasi il 70% della città. Non si trattò solo di ricostruire case, ma edifici strategici per la vita cittadina, come ad esempio i centri commerciali attorno i quali ruotava l’economia di Edo. Per non parlare di templi e santuari plurisecolari, buona parte dei quali non esisteva più.
I Tokugawa impararono la lezione e affidarono a Matsudaira Nobutsuna, daimyō e rōjū di corte (signore e anziano consigliere) il progetto di ricostruzione e riorganizzazione. In funzione preventiva furono costruite strade più larghe e realizzati spazi più aperti. Si ideò un sistema di vasche d’acqua e canali per facilitare l’accesso all’acqua in caso di emergenza. L’area attorno al castello, fortemente degradata dall’incendio, venne completamente ripensata. Tra gli edifici degli alti funzionari gli architetti idearono delle trincee tagliafuoco, così da evitare l’eventuale propagazione delle fiamme. I templi andati distrutti vennero ricostruiti, ma non nell’area centrale, bensì in riva al fiume.

Il grande incendio di Meireki, scoppiato il 2 marzo 1657, rappresenta uno dei più grandi disastri della storia giapponese. Comparabile, per dinamiche e numeri, a ciò che accadde all’oramai Tokyo tre secoli più tardi, durante e dopo il terremoto del Kantō del 1923 (questo l’approfondimento). Curioso, seppur drammatico, pensare che solo nove anni più tardi, dall’altra parte del mondo, a Londra per l’esattezza, scoppiò un altro grande incendio. I due eventi si assomigliarono per tanti motivi, ma a lungo la storiografia occidentale – complice la serrata voluta dai Tokugawa – ignorò la catastrofe di metà Seicento a Edo.