Almanacco del 10 marzo, anno 1959: scoppia a Lhasa, capitale del Tibet, una violenta contestazione popolare contro l’occupazione cinese, ufficializzata 8 anni prima con l’Accordo dei 17 punti. La rivolta del 10 marzo ’59 in Tibet fu un evento chiave nella storia del conflitto sino-tibetano e segnò l’inizio dell’esilio del XIV e attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso. Si risolse in un fallimento poiché non comportò un cambiamento in positivo per la popolazione tibetana ma indusse l’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) a porre in atto una durissima repressione.

In breve, ciò che accadde nel 1959 fu una diretta conseguenza degli avvenimenti politico-militari che contraddistinsero gli albori del decennio. Dopo la nascita della Repubblica Popolare Cinese (1949), il governo di Mao Zedong decise di ristabilire il controllo cinese sul Tibet. Pechino considerava la regione himalayana parte integrante della Cina propriamente detta ma de facto il Tibet era indipendente dai primi anni del XX secolo. Il governo autonomo del Dalai Lama durò fino al 1950, quando le truppe cinesi – del già citato EPL – invasero il Tibet e sconfissero il piccolo esercito nazionale. Con l’Accordo dei 17 punti, firmato dal collegio governativo tibetano sotto pressione militare cinese, Lhasa riconobbe la sovranità della Cina sul proprio territorio.

Secondo il trattato di pace tuttavia, ad un’integrazione alla Cina comunista non sarebbe dovuta conseguire una cancellazione della cultura tibetana, dei suoi costumi e delle sue tradizioni plurisecolari. In poche parole, il Tibet accettava il predominio cinese in materia militare e in politica estera, a patto che non venisse destrutturata la tradizionale autonomia – soprattutto religiosa – di cui da sempre godeva. Negli anni ’50 la Cina non sembrò rispettare gli accordi e avviò una serie di riforme dal contenuto radicale. Esse mirarono al depotenziamento sociale e amministrativo dei monasteri, alla svalutazione delle tradizionali élite locali, all’espropriazione delle terre e alla collettivizzazione dell’agricoltura (colonne portanti della dottrina maoista).
Generò altresì malcontento la politica “colonialista-insediativa” che i cinesi misero in atto nelle aree settentrionali della regione autonoma. Il governo di Pechino incentivò lo spostamento delle popolazioni di etnia Han verso il Tibet, così da mutare gli equilibri demografici nella regione. La mossa marginalizzò progressivamente i tibetani che da secoli abitavano quelle aree. Ragion per cui nel biennio 1956-57 scoppiarono delle rivolte in queste province settentrionali (Kham e Amdo). L’Esercito Popolare di Liberazione contenne e represse nel sangue i tentativi di ribellione. Bisogna tuttavia dire come la popolazione tibetana nella maggior parte delle occasioni manifestò il proprio malcontento pacificamente, seguendo le direttive del XIV Dalai Lama.

La guerriglia urbana, il sentimento separatista, la resistenza tibetana e il pugno duro cinese fecero degenerare la situazione. Già prima del 10 marzo 1959 a Lhasa si sparse la voce secondo la quale le autorità militari cinesi volessero deporre o rapire il Dalai Lama. Migliaia di cittadini si radunarono attorno al Palazzo del Potala, residenza della massima autorità spirituale della tradizione buddhista tibetana, in modo tale da creare un cordone protettivo contro l’eventuale aggressione cinese. La dimostrazione di vicinanza al Dalai Lama evolse in ben altro nell’arco di qualche ora. I manifestanti iniziarono ad inneggiare all’indipendenza del Tibet e alla cacciata dei comunisti cinesi. Mobilitato l’esercito e schierata l’artiglieria, il comando militare cinese attese l’ordine da Pechino per agire.

La protesta del 10 marzo proseguì e nei giorni a venire si fece più violenta. I ribelli occuparono strade ed edifici strategici, mettendo alle strette l’esercito cinese. Il 17 marzo Pechino diede l’ordine di sedare con ogni mezzo l’insurrezione. Partirono un paio di colpi di artiglieria, che caddero vicino il Palazzo del Potala. A quel punto il Dalai Lama si decise definitivamente a lasciare Lhasa, accettando la via dell’esilio. Riparato in India, proclamò l’indipendenza del Tibet. Dal canto loro i cinesi ripresero il totale controllo della situazione il 23 marzo. Ciò avvenne non prima che le piazze e i vicoli della capitale si trasformassero in tanti piccoli campi di battaglia, con barricate e postazioni protette.

I combattimenti comportarono un gran numero di morti, anche se le stime in merito divergono. Fonti vicine alla fazione ribelle sostengono siano morte più di 87.000 persone tra i tibetani, con all’incirca 6.000 fra monasteri e santuari andati distrutti. Fonti governative cinesi accertano la morte di 2.000 soldati dell’ELP, ma forniscono stime al ribasso per quanto riguarda i decessi tibetani. La rivolta del 10 marzo è commemorata ogni anno dagli esuli tibetani come il “Giorno della Resistenza Tibetana“. Un simbolo della loro lotta per l’identità e l’autodeterminazione.