Di leggende metropolitane, voci infondate – ma curiose – e storie inverosimili il periodo della Prima Guerra Mondiale è pieno. Vi abbiamo accennato la sorprendente vicenda riguardo agli “Angeli di Mons” e, per continuare la miniserie, abbiamo pensato di sottoporre la vostra attenzione ad un altro episodio, forse un po’ più macabro, ma che a suo tempo ebbe una popolarità tale da far passare la veridicità (o meno) della notizia stessa in secondo piano; contava solamente diffamare le fila nemiche in nome di una guerra giusta. Ecco a voi l’incredibile storia delle “fabbriche dei cadaveri” tedesche.
Kadaververwertungsanstalt. Evitiamo battute. Se tradotto alla lettera, il termine assume la seguente accezione “fabbrica per l’utilizzo delle carcasse”. E già qui un lettore attento potrebbe notare un primo equivoco di base, ma procediamo oltre, all’inghippo arriveremo dopo. Fatto sta che il Times di Londra (il Times!), intorno alla metà d’aprile del 1917, pubblicò un minuscolo articolo dedicato ad una notizia, ripresa in primo luogo da una testata berlinese. Il fulcro della news ruotava attorno ad un cattivo odore, proveniente da una fabbrica capitolina neppure troppo periferica, adibita alla lavorazione dei kadaver…
Piccola nota linguistica: il termine “kadaver” in tedesco non esprime soltanto, come nell’italiano corrente, il significato di cadavere umano; infatti è utilizzato principalmente per tutti i corpi senza vita, soprattutto quando si parla di animali. La rispettabile testata giornalistica londinese sapeva benissimo il funzionamento di questo meccanismo linguistico, anche perché non pochi lettori contestarono la notizia con diverse lettere di reclamo. Accadde però l’inevitabile. In terra britannica esplose il putiferio mediatico. Molti iniziarono a credere alla storia per la quale gli uomini del kaiser avessero l’abitudine di spedire i corpi dei soldati deceduti al fronte in queste fabbriche. Da tali spoglie si sarebbero ricavate svariate risorse: glicerina, grasso per il sapone, fertilizzante, mangime per gli animali.
Non contenti i principali quotidiani inglesi, impegnati nella rassegna stampa tedesca in tempo di guerra, aggiunsero alla narrazione altri dettagli a dir poco sconcertanti. Per la cronaca: queste aggiunte provenivano da fonti belghe; ricordiamo come il Belgio era territorio occupato e aveva tutto l’interesse di questo universo nel demonizzare il nemico. I giornali fiamminghi indipendenti riportavano come queste fabbriche si trovassero all’interno di una non meglio precisata foresta. Le strutture godevano anche di un presidio militare ed erano parte di un programma produttivo segreto. A noi potrebbe sembrare esagerato, ma allora queste parole colpivano in pieno gli animi europei avversi agli imperi centrali.
Ora che però sappiamo grosso modo come sono andate le cose in quella primavera del 1917, vengono a formarsi delle ovvie domande. Ne poniamo due e, assieme, cerchiamo di dare una risposta logica. La macabra storia fu composta a tavolino dalla propaganda governativa anti-tedesca? E poi, come ci si spiega un successo di tale portata? Sulla prima questione gli storici dibattono ancora oggi, ma esiste una linea comune: no, anche se vi fu un’interrogazione parlamentare in merito, la novella delle fabbriche dei cadaveri del reich non venne resa pubblica per volontà del governo. Questo è vero, come è vero che Londra poi fece di tutto per sfruttare questo elemento propagandistico a suo favore.
Rispondendo alla seconda domanda, ci avviamo alla conclusione. Per comprendere il successo del racconto, bisogna tenere a mente il modus operandi delle agenzie propagandistiche durante gli anni della Grande Guerra. L’unica cosa che contava era quella di far passare il nemico come un mostro capace delle peggiore atrocità. La storiografia anglosassone ha anche coniato un termine in merito: “atrocity propaganda” – “propaganda dell’atrocità”. E di storie come questa, anche più spettrali sotto certi punti di vista, il lettore medio dell’epoca ne assorbiva a dozzine. Perciò non deve stupirci affatto la diffusione di quella storia – anche tra le trincee, sul fronte – perché il mondo funzionava così e forse, con le dovute precisazioni, ancora oggi continua a farlo.