Il 24 marzo 1944, a Roma, presso le Fosse Ardeatine, si consumò uno dei più disumani e tristemente noti eccidi della Seconda Guerra Mondiale. In esso persero la vita 335 persone innocenti, di diversa fascia d’età: il più giovane aveva quindici anni, il più anziano settantaquattro.
La motivazione della strage delle Fosse Ardeatine risiedeva in una cieca e brutale volontà di vendetta da parte tedesca per l’attentato di Via Rasella. Il 23 marzo 1944, infatti, dodici partigiani del GAP (Gruppi di Azione Patriottica) fecero esplodere quattro ordigni in Via Rasella, nel rione Trevi, pieno centro di Roma. L’obiettivo era quello di colpire l’11° compagnia del reggimento di polizia tedesco “Bozen” ed ebbe come esito la morte di 33 militari.
La reazione dell’alto comando nazionalsocialista predisposto alla gestione di Roma occupata fu ovviamente furibonda. Era necessario rispondere con una punizione esemplare, che desse anche prova della forza degli occupanti. Si decise quindi di fucilare 10 italiani per ogni tedesco che aveva perso la vita a Via Rasella. Il luogo da deputare alla strage fu individuato nelle cave di pozzolana lungo la Via Ardeatina, poco fuori Roma.
Si vagliarono immediatamente le liste dei prigionieri di tutte le carceri della città, che però si rivelarono insufficienti a raggiungere la quota decisa per l’eccidio. L’Oberstrumbannfuhrer Herbert Kappler, comandante della GESTAPO di Roma, e il suo aiutante Erich Priebke decisero quindi di includere 65 ebrei romani in attesa di essere deportati. Tuttavia, non era stato ancora raggiunto il quorum necessario. Si decise quindi di aggiungere altri 10 ebrei i attesa di deportazione e di organizzare un rastrellamento di civili.
Le modalità del massacro dovevano seguire una precisa scaletta: 67 turni di esecuzione con le vittime suddivise in gruppi da cinque. Quando un gruppo entrava nelle grotte, Priebke aveva il compito di controllare i nominativi dalla lista e depennarli mano a mano che morivano. Le vittime, fatte inginocchiare, erano assassinate tramite colpo di pistola alla nuca dall’alto verso il basso. Lo stress emotivo che colpì i soldati tedeschi predisposti all’esecuzione, uniti a tentativi di fuga da parte delle vittime, resero più complicato portare a termine le esecuzioni. Tuttavia, la rappresaglia terminò con successo intorno alle 20.00. I morti alla fine giunsero alla cifra di 335, 5 in più rispetto a quanto prospettato. Priebke raccontò al processo che, nonostante si fosse accorto dell’errore e lo avesse comunicato a Kappler, costui gli ordinò di procedere comunque.
Al termine della guerra, in Italia si istituì un processo a carico dei responsabili. Kappler ottenne una condanna all’ergastolo, ma nel 1976 riuscì ad evadere e fuggire in Germania dove morì l’anno successivo. Priebke al termine della guerra fuggì in Argentina, ma nel 1994, rintracciato ed estradato in Italia, subì una condanna a quindici anni di carcere con la possibilità di scontare la pena in casa. Priebke morì a cento anni, compiuti a Roma.