Dopo aver posto fine all’Impero Romano d’Oriente nel 1453 (anche se questo effettivamente declinerà qualche decennio dopo), il Sultano Mehmet II, cavalcando l’onda del successo garantito dal suo formidabile esercito, decise di puntare verso occidente. La voglia di conquistare quella terra diretta ereditiera dei fasti romani era tanta; chissà, tra i piani dell’ambizioso Mehmet II forse ci fu anche la conquista di Roma stessa. Ma da qualche parte gli Ottomani dovevano pure sbarcare. Con questa premessa che vogliamo introdurvi all’episodio, datato 1480-81, noto come “Sacco di Otranto“.
La Sublime Porta seppe muoversi bene prima di tentare l’assalto al meridione italico. Dopo la conquista dell’Albania ai danni di Venezia nel 1479, essa si assicurò la neutralità della Serenissima in cambio della riapertura dei commerci. Non solo, Mehmet fu pienamente consapevole, fin dall’inizio, del favore che gli avrebbe garantito il continuo conflitto tra gli stati italiani. Il Sultano incaricò Gedik Ahmet Pascià come comandante in capo della spedizione e iniziò con la sua (potenzialmente infermabile) opera di conquista. Durante gli ultimi giorni di maggio del 1480, gli Ottomani scalzano gli Ospitalieri e conquistano Rodi.
Almeno sulla carta doveva essere un tentativo di depistaggio e in effetti Ferdinando I di Napoli, comunemente noto come Ferrante, abboccò. Il sovrano aragonese inviò un contingente sull’isola nell’Egeo a giochi già conclusi, indebolendo la già esigua guarnigione adriatica. Così nel luglio, Pascià prese il largo da Valona, a capo di 15.000 uomini, e si diresse verso la costa pugliese. L’obiettivo era Brindisi, ma una tempesta fece finire gli Ottomani di fronte a Otranto: andò bene lo stesso.
Gli uomini col turbante attraccarono in quella che oggi è conosciuta come “Baia dei Turchi”, 6 km a sud di Otranto, e iniziarono a risalire la costa. Chi c’era a difesa della città salentina? Quasi nessuno, anche se Ferrante stava già organizzando una spedizione di supporto. Gli idruntini imbracciarono le armi, si rinchiusero all’interno delle mura del castello e attesero l’assedio. Gli Ottomani, come di consueto, cercarono prima la via diplomatica: avere salva la vita a patto di abiurare il cristianesimo. Nessuno degli abitanti accettò. L’assedio ebbe inizio e durò due settimane, terminando l’11 agosto con l’inevitabile sconfitta di Otranto. L’esercito turco si concesse momenti di estrema violenza (cosa comune a qualunque forza armata dell’epoca, sia chiaro), risparmiando solo le donne più attraenti e i bambini, immediatamente schiavizzati.
Eppure 813 idruntini riuscirono a scamparla, almeno sul momento, serrandosi all’interno della Cattedrale sul Colle della Minerva. Pascià offrì loro la stessa offerta di qualche settimana prima, ricevendo un secco “no” come risposta. Avvenne così l’esecuzione, per decapitazione, di quelle persone. Per qualche mese il Salento fu terra di razzia da parte turca, fin quando i soldati del Regno di Napoli sopraggiunsero per liberare Otranto, sfruttando il disordine che dalle parti di Costantinopoli si creò (morte di Mehmet II e lotta fratricida tra i figli). Esattamente un anno dopo, nel settembre del 1481, Pascià si arrese e consegnò la città ad Alfonso d’Aragona, figlio di Ferrante.
Dopo aver ricostruito le mura a seguito del Sacco di Otranto, gli abitanti dedicarono un’entrata all’artefice di quella riconquista, realizzando la “Porta Alfonsina” – ancora oggi visibile. Gli eventi del 1480-81 non furono mai dimenticati; Papa Francesco ha canonizzato gli 813 martiri del Colle della Minerva. L’orgoglio, il sacrificio e il senso d’appartenenza dimostrati dagli idruntini sono ancora oggi valori ricordati dai monumenti della città.