Doveva essere un volo tranquillo. Partito da Montevideo, l’aereo Fokker F27 era atteso a Santiago del Cile, in data 12 ottobre 1972. A bordo ci sono 45 persone, equipaggio incluso. Nessuno sa che l’aereo che stanno per prendere si sarebbe schiantato sulla parete andina, generando una vera e propria tragedia, poi tramutatasi in miracolo per chi ce la fece. Questo è il disastro aereo delle Ande.
A causa di condizioni meteo non ottimali, il volo 571 è costretto all’atterraggio d’emergenza all’aeroporto di Mendoza, in Argentina. Questo riparte 24 ore dopo, nella speranza (fin da subito disattesa) di un miglioramento climatico. Durante il tragitto i piloti commettono gravi errori di calcolo e, pensando di essere vicini alla capitale cilena, iniziano a scendere di quota. In realtà stanno sorvolando la catena andina, con cime che toccano i 6.000 metri. L’errore, se mixato ad una scarsissima visibilità dovuta alla nebbia, è fatale.
Il Fokker F27 si infrange su una parete rocciosa, perde coda e ali. La fusoliera precipita violentemente sulla neve. L’urto è scioccante, ma il gelo dei 4.000 metri d’altitudine forse lo è di più. I sopravvissuti contano morti e feriti; non solo, oltre che razionare fin da subito le scorte, si tentano delle comunicazioni radio. Sebbene si senta a tratti, una frequenza avvisa il gruppo che le ricerche sono in atto. C’è fiducia, forse troppa.
Tra i sopravvissuti ci sono diversi componenti di una squadra di rugby, una delle più note del panorama sportivo uruguagio. In 12 hanno perso la vita nell’incidente, gli altri, soprattutto i più integri, si ingegnano per non morire lì sopra. Eppure il 23 ottobre la triste novità: le ricerche si fermano, le autorità hanno modo di credere che del volo 571 non sia rimasto nessuno in vita. Qui collassa l’ottimismo e si fa strada l’idea che nessuno vorrebbe mai pensare, eppure eccola lì. Qualcuno parla apertamente di cannibalismo. Cibarsi della carne umana appartenente a corpi morti è forse l’unica cosa rimasta da fare per non spegnersi.
L’idea si tramuta in cruda realtà. Trascorrono i giorni e al danno si aggiunge la beffa. Una valanga travolge la fusoliera, recidendo le vite di alcuni. Restano in 16. A dicembre inoltrato, dopo alcune spedizioni andate a male, Fernando Parrado e Roberto Canessa, dopo giorni di cammino disperato incontrano vita umana. Chiedono aiuto a un mandriano, il quale si fa 10 ore di cavallo per giungere nella caserma più vicino. Da quel 20 dicembre 1972 partono le operazioni di soccorso, che trarranno in salvo 16 persone, 16 vite, 16 sopravvissuti.
Sul disastro aereo delle Ande si è scritto, si è parlato, soprattutto l’accaduto ha fornito lo spunto per la produzione di due film, entrambi di successo. Il mondo intero ha seguito con ansia l’evolversi della vicenda in quei giorni tardo autunnali del ’72. L’umanità ha constatato come grazie al sacrificio, la dedizione, il supporto reciproco tutto sia possibile, anche sopravvivere per mesi dispersi tra le Ande.