Almanacco del 9 marzo, anno 1161: a Palermo, capitale del Regno normanno di Sicilia, ha luogo una cospirazione di stampo nobiliare contro il re Guglielmo d’Altavilla. Passata alla storia come “Congiura di Bonello”, l’evento destabilizzò momentaneamente le sorti del regno, salvo risolversi – in meno di tre giorni – in un sostanziale nulla di fatto. La sua storia comunque merita di essere ricordata, anche solamente per il suo indubbio valore folkloristico oltre che storico.

La premessa che tuttavia deve essere fatta è la seguente: in larga parte i dettagli della vicenda sono stati riportati da un cronista coevo, di cui tuttavia non si conosce la vera identità (e di conseguenza si nutrono dubbi sull’attendibilità di ciò che scrisse). Inoltre, all’infuori di questo autore, di cui conosciamo però lo pseudonimo – Ugo Falcando – si hanno poche altre fonti dalle quali attingere. A peggiorare il quadro della ricerca storica ci sarebbe il fatto che suddette fonti con frequenza entrano in contrasto fra di loro, apparendo non solo frammentarie, ma anche discordanti. Detto ciò, qualche punto abbastanza certo della vicenda si può tuttavia snocciolare.
La Sicilia normanna, nata ufficialmente nel 1130 grazie a Ruggero II d’Altavilla, era uno degli stati più potenti e avanzati dell’Europa nel XII secolo. Alla morte di Ruggero II, avvenuta nel 1154, il trono passò a suo figlio quartogenito Guglielmo I (i fratelli più grandi morirono tutti prematuramente). Egli si trovò a governare un regno sì florido, ma estremamente complesso, caratterizzato da una popolazione multietnica (normanni, arabi, greci, latini) e da una forte opposizione dell’aristocrazia locale.

Guglielmo I fu un sovrano tendenzialmente accentratore, impegnato nel potenziamento della burocrazia, ma generalmente disinteressato alla politica e al consolidamento del potere. Tuttavia ebbe il merito di cogliere le peculiarità del territorio sul quale si estendeva la sua autorità. Per questo implementò l’amministrazione pubblica, inserendo al suo interno funzionari di origine non normanna. Uno di quei “fedeli” rispondeva al nome di Maione da Bari. Di origine longobarda, Maione assunse la carica di gran cancelliere e primo ammiraglio del Regno di Sicilia. In realtà il titolo esatto che giustificò le sue mansioni, ovvero amiratus amiratorum (emiro degli emiri), rispecchiava alla perfezione un tratto peculiare di re Guglielmo. Una totale associazione ai valori della raffinata cultura araba.
Per concludere il focus sul contesto, è necessario ricordare due cose. La prima, che Guglielmo non si preoccupò inizialmente dei pericoli esterni ed interni al suo regno. La seconda, conseguenziale, è che questo generico disinteresse permise ad una fetta dell’aristocrazia normanna di covare liberamente un aspro risentimento nei confronti della corona degli Altavilla. In questo specifico ambiente s’inserisce la Congiura di Bonello del 9 marzo 1161.

Matteo Bonello era un influente nobile alla corte palermitana. Guglielmo in persona lo scelse per sovrintendere ai domini reali in Calabria e Puglia, nonché per intermediare con le locali aristocrazie, scontente dell’operato normanno. Nel tempo trascorso fuori dalla Sicilia però, Bonello passò dalla parte dei riottosi. Anzi, per via del suo prestigio e del suo status si pose a capo della fazione ribelle. Se c’era una persona che Bonello proprio non poteva sopportare era Maione da Bari, a sua detta immeritevole di esercitare tutti quei poteri e reo di aver lasciato che l’ultimo possedimento siciliano in Africa, la città di Mahdia, cadesse senza colpo ferire nelle mani della dinastia berbera degli Almohadi (gennaio 1160).
Accusando di incompetenza i vicari del re, di essere beneficiari di eccessivi favoritismi gli emiri arabi, e raccogliendo il favore del popolo palermitano (il quale giudicava la corte normanna lontana e insensibile alle necessità della gente comune), Matteo Bonello, forte di un piccolo esercito, nel novembre del 1160 marciò su Palermo e in pubblica piazza fece giustiziare il gran cancelliere Maione. Per non inimicarsi ancor di più il popolo e soprattutto per non rischiare una devastante guerra civile, re Guglielmo “perdonò” Bonello, a patto che quest’ultimo si allontanasse dalla corte palermitana.

Bonello aveva fatto 30, pensò bene di fare 31. Ritiratosi nel castello di Caccamo, chiamò a sé quanti tra i nobili di Sicilia intendevano deporre il re a favore del figlioletto Ruggero (minorenne e perciò facilmente manovrabile). Ancora oggi una sala del castello di Caccamo, che si trova in provincia di Palermo, prende il nome di “Sala della Congiura”. Non penso servano ulteriori spiegazioni. Il 9 marzo 1161 l’aristocrazia avversa alla corona rovesciò il re, lo imprigionò e acclamò come suo successore il figlio Ruggero. Il colpo di stato si trasformò ben presto in un’incontrollata sommossa popolare. A Palermo per due giorni, fino all’11 marzo, si verificarono atti di violenza estrema. Ne pagò le conseguenze soprattutto la minoranza musulmana, vicina alle istanze reali.
Oscuro è il motivo per cui Bonello non approfittò del disordine per conquistare militarmente la città di Palermo e portare a compimento la congiura. Fatto sta che Guglielmo, aiutato da una importante fetta del notabilato di corte, riprese in mano le redini del regno. Forse riuscì a corrompere un collaboratore di Bonello, il quale tradì il capo della cospirazione e lo consegnò al re. A questo punto la realtà si mischia con la leggenda (che si diletta a parlare di torture, amori traditi, fantasmi). Inoppugnabile tuttavia che il nobile normanno trovò la morte dopo la cattura.

La rivolta, sebbene sedata a Palermo, continuò altrove sull’isola, con altre personalità influenti – vengano citati quantomeno Tancredi di Lecce (futuro re di Sicilia dal 1189 al 1194), Simone di Taranto e Ruggero Sclavo – che lottarono per la causa dei ribelli fino al sopraggiungere dell’estate. La rivolta di Bonello fu uno dei più significativi tentativi di sovvertire il governo normanno di Sicilia, ma si rivelò un fallimento. La repressione seguita alla ribellione rafforzò l’autorità monarchica e contribuì a mantenere l’unità del regno normanno per almeno altri quarant’anni.