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Foto del giorno: perché andare al Polo Nord in mongolfiera non è mai una buona idea

Fotografia di Nils Strindberg, Kvitøya, isole Svalbard, 14 giugno 1897. Cosa mai potrà andare storto in una spedizione in mongolfiera al Polo Nord? Tutto in pratica. Questa è la storia di una sfortunata e tragicamente disastrosa spedizione in mongolfiera al Polo Nord, nota come Spedizione polare di SA Andrées. Di cui potete vedere il pallone aerostatico L’Aquila (The Eagle) subito dopo l’atterraggio di fortuna alle Svalbard.

La disastrosa spedizione in mongolfiera al Polo Nord

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Crediti foto: @Tekniska museet, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

Diciamo che a volte gli esploratori si fanno prendere un po’ la mano. Come nel caso della spedizione in mongolfiera al Polo Nord: perché mai andare nell’Artico su un pallone aerostatico dovrebbe essere una buona idea?

Il fatto è che dobbiamo fare un passo indietro nella storia. Alla fine del XIX secolo riuscire a raggiungere il Polo Nord era diventata un’ossessione che non aveva confini (non che per il Polo Sud fosse diverso!). Tutti volevano raggiungere per primi il Polo Nord, ideando i piani e i progetti più disparati. Alcuni, effettivamente, apparivano sensati. Altri alquanto incoscienti. Affascinanti sì, ma un po’ privi di buon senso. Soprattutto col senno di poi.

Uno di questi piani non andati esattamente a buon fine fu quello dell’ingegnere svedese Salomon August Andrée. La sua idea era semplice: attraversare l’artico a bordo di un pallone a idrogeno. All’epoca i piloti di mongolfiere erano entusiasti dei loro svolazzanti mezzi di locomozione. Tuttavia tendevano a trascurare un dettaglio basilare: nessuno aveva ancora ben capito come guidare queste mongolfiere.

In pratica una volta che il pallone era in aria, era semplicemente sballottato qua e là dai capricci del vento, spesso e volentieri andando alla deriva. Da bravo ingegnere, però, Andrée aveva riflettuto sulla questione ed era riuscito a trovare un modo di aggirare questo problema. O almeno, pensava di aver trovato il modo. Perché, come vedremo, le cose non andarono esattamente come previsto.

Andrée aveva studiato un sistema che avrebbe dovuto permettergli di guidare il pallone appendendo delle corde al cesto. Trascinate a terra, il peso delle corde e il relativo attrito avrebbe dovuto consentirgli di direzionare il pallone. Questo almeno sulla carta.

In effetti fece anche alcuni test e si convinse che avrebbe potuto attraversare l’Artico e sorvolare il Polo Nord a bordo di un pallone riempito di idrogeno. Ovviamente costruire e attrezzare la mongolfiera era parecchio costoso. Ma fortunatamente per l’ingegnere, la Svezia fu conquistata a tal punto dal suo audace piano che diverse personalità svedesi importanti aprirono i portafogli. E fra di essi c’erano anche re Oscar II e Alfred Noble.

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Crediti foto: @Oliver beige , Wikimedia Commons // CC BY 2.0

Andrée riuscì così a costruire la sua mongolfiera, The Eagle. E trovò anche altri due membri dell’equipaggio. Uno era l’ingegnere Knut Fraenkel e l’altro il fotografo Nils Strindberg. I tre salparono sul loro pallone aerostatico l’11 luglio 1897 da Danskøya, un’isola nell’arcipelago delle Svalbard. Ora, fate mente locale: avete mai visto una mongolfiera guidata tramite corde e cavi a terra? No. E per un buon motivo: questo sistema non funziona. Pensate che i tre cavi da traino dell’Eagle non hanno permesso alla mongolfiera neanche di uscire dalla zona di lancio.

Praticamente subito dopo il decollo il pallone è stato catturato da una corrente d’aria discendente che ha quasi fatto precipitare il pallone nell’acqua ghiacciata. Per riuscire a evitare il bagno assiderante, Andrée e il suo equipaggio hanno dovuto gettare fuori bordo la sabbia per alleggerire la mongolfiera. Come se non bastasse la perdita della zavorra, ecco che l’Eagle andò incontrò ad un altro problema. Alquanto serio. Nei pochi istanti in cui il pallone aveva rischiato di finire ammollo, ecco che tutte e tre le corde di traino si erano prima attorcigliate e poi staccate. Il che vuol dire che Andrée non aveva più alcun modo per governare il pallone.

Certo, c’erano ancora le corde di trascinamento che potevano garantire un minimo di attrito, ma quelle ormai servivano come zavorra visto che la sabbia non c’era più. Senza zavorra e senza guida, il pallone iniziò a salire troppo. L’altitudine eccessiva causò l’accelerazione della perdita di idrogeno e dopo sole 10 ore dal lancio, ecco che il pallone aveva perso così tanto gas che ormai slittava e sobbalzava sul ghiaccio artico. E dopo 65 ore di viaggio, infine, il pallone si schiantò a terra.

Fortunatamente l’atterraggio di fortuna/schianto non fu terribile e tutti e tre i membri dell’equipaggio rimasero illesi. Anche l’equipaggiamento era integro. A disposizione avevano cibo, tende, slitte, una barca e pistole. Inoltre Andrée aveva anche lasciato dietro di sé due depositi extra di rifornimenti di emergenza. Almeno qui, non ci sarebbe stato nulla da rimproverargli: fu abbastanza previdente. Ma questo solo in teoria.

All’equipaggio non rimase altro che accumulare l’equipaggiamento sulle slitte e iniziare a incamminarsi verso uno dei depositi. Ovviamente Strindberg, intanto, documentò tutto con la sua macchina fotografica. Se però Andrée era stato accorto per quanto riguardava depositi ed equipaggiamento, non lo era stato a sufficienza. In fin dei conti erano scienziati e accademici, non esploratori. Certo, aveva accumulato provviste. Ma non abbastanza. Inoltre i loro vestiti non erano sufficientemente caldi per metterli al riparo dal freddo artico. E anche le slitte usate erano troppo rigide.

Per loro fortuna non morirono di fame in quanto riuscirono a cacciare foche e orsi polari. Un altro dettaglio a cui non avevano pensato, però, fu quello relativo al movimento del ghiaccio: quest’ultimo, infatti, si stava allontanando dal deposito. Quindi l’avanzata del gruppo fu assolutamente inutile perché il deposito si allontanava sempre di più. Così non rimase loro che invertire il senso di marcia e dirigersi verso il secondo deposito. Ma qui furono funestati dai venti e così, dopo due mesi di sgambettamento inutile sul ghiaccio, ecco che decisero di allestire un campo invernale su una lastra di ghiaccio.

Costruirono anche un igloo e le cose sembrarono andare bene all’inizio. Ma dopo tre settimane, a inizio ottobre, la banchisa iniziò a rompersi. Così l’equipaggio dovette spostarsi su un’isola vicina. L’idea era quella di svernare lì. Ma qualcosa non andò per il verso giusto. Nessuno sa cosa sia accaduto loro dopo. Il trasferimento sulla nuova isola è l’ultima testimonianza certa lasciata dall’equipaggio.

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Crediti foto: @Tekniska Museet , Flickr // CC BY 2.0

Purtroppo, infatti, tutto l’equipaggio morì durante questa fase della spedizione. Solo che nessuno sa quale sia stata la causa della loro morte. Secondo gli storici potrebbero essere morti per ipotermia, sfinimento o per aver mangiato carne di orso polare avariata. L’unica cosa certa è che tutti e tre i membri dell’equipaggio morirono qualche giorno dopo essere arrivati sull’isola.

Ovviamente nessuno a casa sapeva quale fosse stata la loro sorte, non c’era modo per comunicare con loro. Tutto quello che si sapeva era che non erano mai tornati indietro. Ci vollero più di tre decenni affinché l’equipaggio della Bratvaag, una nave da caccia alle foche, riuscisse a trovare i membri dell’Eagle, nel 1930. I marinai trovarono un accampamento fatiscente e ormai distrutto, i resti ei tre esploratori, i loro diari e anche la pellicola fotografica non sviluppata di Strindberg. I cacciatori di foche recuperarono i resti della missione e dell’equipaggio e portarono tutto in Svezia. Qui l’equipaggio dell’Eagle fu celebrato per il loro tentativo eroico. Non particolarmente lungimirante, ma eroico con un certo tocco di incoscienza sì.