A partire dal 1654 Carlo Calà, un nobile partenopeo di origini cosentine, già facente parte dell’élite di potere nel vicereame di Napoli, iniziò con sempre più veemenza a dimostrare come un suo lontano e presunto antenato, vissuto nel XII secolo, fosse stato un uomo pio, dai sani principi cristiani e dunque meritevole della canonizzazione. Chissà con quale grado di consapevolezza, il Calà diede vita ad un’immensa truffa, in questa ed altre sedi ribattezzata la “frode del santo”. Un azzardo che sarebbe potuto costargli carissimo, se altri fattori non fossero intervenuti a suo favore con le giuste tempistiche. Questa è la sua storia, una di quelle alle quali si fa fatica a credere.
Nelle vene di Carlo Calà scorreva del sangue blu, forse non abbastanza “blu” per lui. Membro di una famiglia della nobiltà di toga cosentina, egli nacque nel 1617 e fin da subito fu chiaro che la capitale del vicereame sarebbe stata la sua destinazione. A Napoli studiò e si laureò all’Università federiciana nel 1639. Con le giuste conoscenze e i corretti appoggi, si costruì una nomea abbastanza positiva: filo-spagnolo (di conseguenza anti-francese), giurisdizionalista e contro i privilegi clericali all’interno dello Stato napoletano.
Assicuratosi una posizione di potere, Calà continuava a palesare la sua più grande insoddisfazione: quella di non essere un “nobilissimo“. E poco importava se era presidente della Regia Camera dalla Sommaria (uno dei principali organi burocratico-amministrativi del regno), nonché una delle voci più influenti a corte. Lui voleva essere un nobile con la “N” maiuscola. Per raggiungere questo obiettivo le provò tutte: sposò Giovanna Osorio, parente stretta del futuro viceré Antonio Álvarez Osorio (1672-75). Comprò il feudo di Diano (oggi Teggiano, in provincia di Salerno) con il titolo di duca. Si arricchì oltre modo anche con affari illeciti inerenti l’annona.
Se vogliamo però, la truffa più grande è quella che iniziò a mettere in piedi dal 1654. Truffa che mirava tanto alla santificazione della sua ascendenza quanto alla legittimazione della sua altissima nobiltà. Peccato che il Calà decise di attuare questa sorta di “imbroglio” nel momento meno indicato. La Chiesa romana e cattolica del Seicento era pienamente consapevole di quanto fosse contestabile il costrutto della santità. Opinabile lo era da quando la Riforma, con i vari Lutero, Calvino e chi come loro avevano deciso di denunciare il culto dei santi. Sia su un livello teologico, sia su uno più pragmatico e materiale (criteri poco rigidi e moralmente discutibili per la canonizzazione, ecc.).
Insomma, la contestazione protestante ebbe un effetto: dal 1523 al 1588 le canonizzazioni furono sospese. Esse ripresero, ma con un retroterra innovativo fatto di istituzioni appositamente preposte allo scopo, validi strumenti e mezzi affini. A partire dal XVII secolo, Roma si sentiva certamente più a suo agio nello scegliere chi meritasse o meno la santificazione.
Ora immaginate la faccia dei canonici nell’ascoltare la tesi di Carlo Calà, il quale sosteneva di discendere da tale Giovanni Calà (o Kalà), un cavaliere dall’enorme stazza che discese in Italia al seguito di Enrico VI di Svevia e che, dopo varie peripezie grazie alle quali si distinse come valoroso combattente e fedele servitore dell’imperatore, finì per vivere da eremita, morendo nella più pura beatitudine cristiana.
Attenzione! Non si commetta l’errore di credere che quella di Carlo Calà fosse semplicemente una storiella inventata nelle ore in cui la noia sopraggiunge prepotente e la fantasia gioca brutti scherzi. Il nobile di origini cosentine si avvalse di una dettagliata documentazione scritta da Ferdinando Stocchi, all’epoca valido letterato dell’Accademia Cosentina, in seguito smascherato come abile falsario. Nel 1660 Calà scrisse e pubblicò una Historia de’ Svevi in cui proponeva una serie di tesi atte a corroborare la sua causa. Tesi che si reggevano sulle documentazioni ottenute dallo Stocchi a caro prezzo. Si disse lo ricompensò con 20.000 scudi d’oro, all’incirca 750.000 euro odierni.
Roma attivò sia il Sant’Uffizio, sia la Congregazione dell’Indice. A questi organi Calà mostrò anche delle reliquie, le quali altro non erano che ossa di asino. Alla fine l’iter per la canonizzazione di Giovanni Calà si interruppe, prima per la sospensione del giudizio dei suddetti organi i quali “pur riconoscendo chiari segni di falsificazione, tuttavia, considerarono la verità della storia più sfuggente e incerta di quella della teologia”, poi definitivamente nel 1680, quando uno dei falsari che avevano preso parte alla truffa sul letto di morte confessò l’inganno.
La responsabilità della frode del santo fu addossata interamente a Ferdinando Stocchi, che non era più nel mondo dei vivi dal 1661. Carlo Calà venne a mancare nel 1683, tra l’altro senza eredi. Nei decenni che seguirono la sua posizione in merito alla vicenda fu sempre ritenuta, se non dubbia, quantomeno ambigua. Tanti lo raffigurarono come la vera vittima dell’imbroglio, ma oggi la maggior parte degli storici lo ritiene in malafede e colluso con l’atto disonesto.