Fotografia di anonimo, Parigi, maggio 1933. Marlene Dietrich, icona del mondo musicale e della cinematografia del primo Novecento, arriva a Parigi indossando abiti maschili. Per l’epoca una provocazione in barba alle norme francesi sul buoncostume. La fotografia scattata in occasione dell’approdo parigino della star tedesca naturalizzata statunitense è divenuta con il passare degli anni tanto emblematica quanto fonte di fraintendimenti, per non parlare di vere e proprie “distorsioni” della realtà comprovata. A volerla dire con termini odierni: ne sono uscite fuori non poche bufale…
Prima però vorrei cercare di fornire il giusto contesto all’immagine. Marlene Dietrich si era affermata artisticamente parlando a cavallo fra anni ’20 e ’30. Del 1929 il suo primo ruolo da protagonista nel film muto Enigma o Die Frau, nach der man sich sehnt. Se le doti recitative non erano passibili di critica, diversa era l’accoglienza mediatica quando la diva si mostrava al pubblico. La Dietrich, modello di femme fatale d’eccezione, amava rompere gli schemi, scombussolare l’ordine costituito di una società in progressivo irrigidimento, essere anticonvenzionale quando possibile, se possibile. Date tali premesse si spiega la scelta stilistica di quello “sbarco parigino” tardo primaverile datato maggio 1933.
Nella capitale della Terza Repubblica vigeva un’ordinanza (non una legge!), la quale vietava alle donne di vestire con abiti maschili. Andrebbe fatta in questo frangente una digressione fin troppo lunga, perciò mi limiterò a queste poche parole. L’ordinanza della Prefettura di Polizia di Parigi risaliva al 7 novembre 1800. Per intenderci, qualche mese prima Napoleone aveva vinto la leggendaria battaglia di Marengo. Il provvedimento stabiliva che:
«Ogni donna che desidera travestirsi da uomo deve recarsi alla Prefettura di Polizia per ottenere l’autorizzazione, che può essere rilasciata solo sulla base di un certificato rilasciato da un ufficiale sanitario».
Fondamentalmente con questa arcaica disposizione si cercava di porre un freno al travestitismo, un tabù sociale su cui poco si sa ma su cui andrebbe detto tantissimo. All’inizio del XX secolo, l’evoluzione dell’abbigliamento femminile aveva reso l’ordinanza obsoleta e inutile. Inoltre, bisogna affermare che di strappi alla regola se ne facevano parecchi nella Parigi dei primi anni ’30, per lo più all’infuori della luce dei riflettori. Cosa che a Marlene Dietrich interessava il giusto.
Ottenute le ferie dalla Paramount, la cantante ed attrice natia di Berlino salì a bordo del transatlantico SS Europa a New York in compagnia della figlia Maria. Prima tappa del viaggio era Cherbourg, in Normandia. Da lì un treno avrebbe accompagnato la coppia, divenuta un trio con l’aggiunta del marito, l’aiuto regista Rudolf Sieber (più i bagagli contenenti “25 completi maschili, camice da uomo, cravatte e calze”; Spoto, 1992) fino a Saint-Lazare, Parigi. Scesa dal treno nella stazione del centro, Marlene Dietrich accusò una certa stanchezza. Senza accontentare i giornalisti ivi presenti salì in macchina e partì, lasciando così una folta schiera di articolisti insoddisfatti.
Saranno quelle “penne” ad avere il dente avvelenato nei confronti dell’attrice tedesco-statunitense. La stampa scriverà di lei, eccome se lo farà. A dire il vero i toni furono contrastanti, con alcune testate a difenderla ed altre ad attaccarla. La città si spaccò in due su quella figura polarizzante, su una donna che vestendo da uomo mandò in crisi un sistema sociale precostituito.
Questa è la versione dei fatti sostenuta da prove inconfutabili, ma il genere umano lo conosciamo tutti molto bene. Delle volte si tende a volare in alto con la fantasia pur di suscitare dell’inutile scalpore. Dunque negli anni si è ritoccata la versione, con alterni successi. Tra i meandri del web si possono trovare articoli che sostengono come quel giorni di maggio del 1933 la gendarmeria pose in stato di fermo Marlene Dietrich. Falsità grande come una casa. Fu una voce messa in giro da pochi giornali (neppure transalpini, ma americani) per vendere.
Ecco cosa ci resta di quel giorno: una donna in giacca e cravatta, l’insoddisfazione latente di un giornalismo di basso livello e una fotografia iconica, proprio come il soggetto che immortala.