Fotografia di Frank Fournier, Armero, Colombia, 16 novembre 1985. Tre giorni, ecco quanto è durata l’agonia di Omayra Sánchez, una ragazzina di tredici anni, nata, vissuta e purtroppo precocemente deceduta in Colombia. Agonia scaturita dall’eruzione del Nevado del Ruiz, il più alto vulcano andino del paese latinoamericano. Di quei tre giorni si sa molto, forse troppo. Si conoscono i dettagli delle ultime ore di vita di Omayra, del coraggio e della beffarda leggerezza con la quale la ragazzina affrontò il suo tragico destino.
Fu il francese Frank Fournier, al tempo reporter per il Contact Press Images, a scattare le iconiche fotografie sugli ultimi istanti di vita della ragazza. Lei fu l’emblema del dramma che altre 30.000 persone sperimentarono fatalmente. Il suo fu il volto della rassegnazione, ma anche della protesta nei confronti del governo di Bogotà, reo di aver ignorato gli allarmi sulla preoccupante attività vulcanica del Nevado del Ruiz.
Dunque si trattò di una catastrofe annunciata. Il 13 novembre il vulcano eruttò in tutta la sua violenza. I flussi piroclastici sciolsero la calotta glaciale della montagna, formando lahar (delle colate di fango vulcanico miste a detriti) che si riversarono a cascata nelle sottostanti valli fluviali. 14 le città distrutte, dozzine di villaggi cancellati dalle mappe. Tra questi centri abitati vi era Armero Guayabal, luogo di nascita e residenza di Omayra Sánchez.
Tre ondate (in gergo tecnico “impulsi”) di lahar, le quali viaggiarono ad una velocità di 6 metri al secondo, sommersero Armero. Il terzo impulso compromise in modo critico la stabilità della casa di Omayra, facendola crollare su se stessa. I soccorsi tardivi, perché inevitabilmente ostacolati dal caos circostante, dichiararono in un primo momento dispersi il padre e la zia della tredicenne. In seguito si scoprì che la zia si trovava a pochi centimetri dai piedi di Omayra, schiacciata da cemento e fango.
Gli stessi soccorsi tentarono l’estrazione e il salvataggio della ragazza, ma degli inamovibili detriti le bloccavano gambe e piedi. L’unica soluzione plausibile ma non praticabile era quella di fratturare e amputarle gli arti inferiori. In un ambiente insalubre e assolutamente antigienico ciò avrebbe comportato una morte certa preceduta da un dolore lancinante. Si decise di non decidere, con tutto il peso che la situazione comportava.
Quel peso però, almeno inizialmente, non gravò sul cuore di Omayra. Ella cantò, accettò un’intervista, richiese cibo e bibite gassate. Con il trascorrere delle ore la condizione psico-fisica della protagonista, suo malgrado, peggiorò sensibilmente. Alternò momenti di disperazione e pianto ad altri di delirio. Le preghiere lasciavano il passo alle allucinazioni, mentre l’ora fatale si avvicinava. Gli occhi si fecero rossi; il viso gonfio e le mani bianche non mentivano sullo stato di salute critico. Nella mattina del 16 novembre 1985, alle 10:05, Omayra Sánchez si spense.
In un’intervista posteriore il fotografo Fournier descrisse così la tragedia:
«Arrivai ad Armero all’alba del terzo giorno dopo l’eruzione. Incontrai un contadino che mi parlò di questa giovane ragazza in una condizione disperata. Mi portò da lei e notai come non ci fosse nessuno al suo fianco. I pochi soccorritori cercavano di aiutare chi dall’aiuto avrebbe potuto trarre profitto. Non era così per la ragazzina. […] Mentre il contadino cercava di confortarla io scattai una fotografia, dopo di che cercai di spendere qualche parola per alleviare la tensione. Non fu semplice. Provai impotenza di fronte a questa bambina, che affrontava l’imminente morte con coraggio e dignità. Mi chiese persino se potevo accompagnarla a scuola perché temeva di arrivare in ritardo. Diedi il mio rullino ad alcuni fotografi che stavano tornando all’aeroporto e lo feci rispedire al mio agente a Parigi. Omayra morì circa tre ore dopo il mio arrivo».