Una crociata indetta da una coalizione ebraico-cristiana per liberare la Terra Santa dagli infedeli seguaci di Maometto e restaurare il regno che fu di Salomone e prima ancora di Davide. Non è storia contemporanea raccontata male, ma il sogno irrealizzabile di un ebreo “nero come un nubiano” (cit. Gedaliah ibn Yahya ben Joseph), proveniente da uno sconosciuto regno giudaico collocato nella terra degli arabi, errante tra le corti europee del primo Cinquecento, che finì per dare vita ad un’intricante storia dall’entità oggi solo parzialmente compresa. Il suo nome era David Reubeni e questa è la sua straordinaria vicenda.
Tra l’autunno del 1523 e la primavera del 1524, un pover uomo scuro di pelle e vestito di “seta bianca secondo l’uso ismaelita, munito di velo a copertura del capo e di gran parte di sé” (Lettere di Daniel da Pisa) sbarcò a Venezia. Chiedeva l’elemosina, perché durante il viaggio in nave gli avevano rubato tutto, a suo dire. Eppure non sembrava il tipico mendicante squattrinato e divorato dall’ingiustizia della vita. Era un signore basso di statura, ma dalla riconoscibile stima, almeno a prima vista. Sosteneva di essere un israelita, perciò la comunità ebraica veneziana lo accolse e ascoltò cosa aveva da dire. Quello che sarebbe uscito fuori dalla sua bocca, in parte scioccò e in parte gli valse la reputazione di fantasioso ciarlatano.
Diceva di esser nato nel 1490 in un regno sperduto nel deserto di Habor. La città che diede i natali all’uomo misterioso doveva chiamarsi Khaybar (Hegiaz centrale, penisola arabica). Sosteneva a perdifiato di essere il figlio di un certo re Salomone, defunto e succeduto dal primogenito re Giuseppe, di cui tra l’altro era il fratello minore. Essendo parte della famiglia reale, la corte aveva demandato a lui un compito sacro: cercare alleanze ad ovest per sconfiggere i musulmani nel Levante. Dal tono con cui pronunciava simili rivelazioni, si intendeva la sua serietà. La stessa rettitudine con la quale descriveva il regno giudaico d’appartenenza. Daniel da Pisa, che introdurrò a tempo debito, scrisse di Reubeni:
«Questo David fu inviato dal deserto di Habor, dai trecentomila abitanti di Israele, per stipulare un trattato con il Papa. E chiedergli armi, come corteti e falconeti lanciafuoco [cannoni] e simili, [da consegnare] dal re del Portogallo ad un porto chiamato Jeddah, che è a circa tre giorni di viaggio dal loro paese. Paese [degli ebrei], dieci giorni al massimo».
Questo David Reubeni di nobile stirpe, discendente dalle antiche tribù semitiche di Gad, Ruben (da cui il nome) e Manasse, ammorbò così tanto la comunità ebraica della Serenissima che costrinse quest’ultima ad assecondarlo. Non solo essa ripagò i debiti che nel frattempo il presunto ambasciatore aveva contratto, ma lo affiancò a Daniel di Pisa e lo raccomandò al pontefice. Dunque, chi era costui, fin qui citato senza presentazioni? Ebreo toscano figlio di banchieri graditi alla corte dei Medici, Daniel di Pisa fu uno dei principali esponenti della comunità ebraica peninsulare nel XVI secolo. Data la sua vicinanza alla signoria medicea, coltivava buone relazioni con l’allora papa Clemente VII che, se ricordate, di cognome faceva Medici.
Daniel di Pisa aveva il compito di fare da intermediario e traduttore per Reubeni. Soprattutto grazie all’appoggio del cardinale Egidio da Viterbo (eccelso cabalista cristiano oltre che filosofo e scrittore), i due giunsero a Roma, al cospetto del papa, nel 1524. Clemente VII ascoltò con sincera curiosità cosa ebbe da dire Reubeni, ma essendo totalmente assorbito dallo scontro con l’impero, non poté fare altro che raccomandare il diplomatico e spedirlo in Portogallo, dove avrebbe incontrato il re Giovanni III d’Aviz.
David Reubeni viaggiò nuovamente verso ovest, direzione Almeirim, dove risiedeva il sovrano. Con sé viaggiava tuttavia una reputazione in rapida ascesa. L’arrivo di Reubeni in terra lusitana aizzò gli entusiasmi di quanti si facevano chiamare marrani (ex ebrei o musulmani convertitisi al cristianesimo ma solo all’apparenza). Le autorità ci fecero caso e tennero sott’occhio lo pseudo-ambasciatore. Nel frattempo a corte iniziò a circolare la voce per la quale un accordo con il regno ebraico orientale avrebbe giovato agli interessi portoghesi. Ricordiamo come nel 1521 il sultano Selim I aveva esteso i confini dell’impero fino all’Egitto. Controllando un vitale snodo commerciale come Alessandria, poteva intaccare gli affari che Lisbona tesseva in loco da decenni.
L’azzardo stuzzicò e non poco re Giovanni, che in un primo momento promise supporto militare a David Reubeni. Tuttavia, mentre da una parte trattava con un ebreo, dall’altra perseguitava marrani e conversos. Alla fine il doppio gioco non resse e – complice l’avvicinamento di Reubeni a Diogo Pires, poi passato alla storia come Solomon Molkho, cabalista e mistico avverso alla corona portoghese e successivamente protetto della Sublime Porta – l’ambasciatore ebreo fu espulso dal regno. La sfortuna iniziò a perseguitarlo: in Spagna lo derubarono e in Francia lo tennero prigioniero per un periodo di tempo. Quindi riparò in Italia, prima a Milano, poi a Mantova e di nuovo a Venezia. Un girovagare confuso, durante il quale Reubeni gettò alle ortiche la reputazione che sino ad allora si era costruito.
L’ultima spiaggia per lui era Carlo V. Ma una missione forse già fallimentare in partenza non poté che concludersi nel peggiore dei modi. Accompagnato da Molkho, Reubeni si incamminò per Ratisbona. I due arrivarono nell’agosto del 1532. Non andò bene e purtroppo non sappiamo perché. Le fonti di cui disponiamo, tra le quali una copia del diario di Reubeni, trovato a metà XIX secolo e andato perduto per sempre nel 1867, tacciono sull’incontro. Ebbene, non ci vuole un genio per capire le cose presero una brutta piega. Il sacro romano imperatore rispedì velocemente la coppia dagli inquisitori di Mantova. I medesimi decretarono per Solomon Molkho la condanna al rogo, eseguita nel 1530.
Più o meno stessa sorte toccò a Reubeni, anche se non si sa con certezza quando. Fonti discordanti presentano due versioni: la prima vede Reubeni morire in cattività nel 1535 da qualche parte in Spagna. La seconda invece sostiene come l’ebreo orientale fosse morto a seguito di un autodafé impartito nel 1541 dagli inquisitori di Llerena, sempre in Spagna.
La figura e l’agire di David Reubeni spaccò la galassia ebraica dell’epoca. Alcuni credettero davvero alle sue parole, forse perché senza speranza dopo la grande diaspora iniziata solo qualche decennio prima. D’altro canto, alcuni leader della comunità credevano l’esatto opposto, che questo israelita nero, orientaleggiante e impavido fosse un pericolo per la già fragile collettività. Il rabbino mantovano Abraham ben Solomon Dienna denunciò: “Nessuno è venuto a opporsi a noi, a infuriarsi contro di noi e a farci perire, Dio non voglia, come questo nemico e avversario, questo malvagio Haman (nemico)”.
Cinquecento anni dopo la sua improvvisa apparizione in Europa, nessuno sa chi fosse realmente David Reubeni o da dove venisse. Gli storici hanno sostenuto in vari modi che fosse indiano, abissino, sefardita, yemenita, un ebreo ashkenazita di lingua yiddish, o addirittura tutt’altro che ebreo. Un mistero a cui non esiste risposta, ma che si può utilizzare come paradigma per rappresentare un’epoca di grande fervore culturale, politico, non ultimo religioso.