Almanacco dell’11 ottobre, anno 1634: con drastico impeto si abbatté sulla costa settentrionale europea una mareggiata mai vista prima. L’evento passò alla storia come alluvione di Burchardi. Essa ridisegnò in modo radicale la fisionomia della fascia costiera continentale che si affaccia sul Mare del Nord.
La Frisia storica – regione divisa ad oggi fra tre nazioni: Frisia occidentale (Paesi Bassi); Frisia orientale e Dithmarschen (Germania); Frisia settentrionale, nello Jutland (Danimarca) – venne completamente spazzata via dal violento fenomeno naturale. L’acqua che valicò gli ordinari confini trascinò con sé dighe, sbarramenti artificiali, frantumò la linea costiera per chilometri e chilometri. La terribile notte tra l’11 e il 12 ottobre del 1634 costò la vita ad un numero imprecisato di persone. Si pensa comunque ad un numero non inferiore alle 8.000 vite e non superiore alle 15.000.
Se sulle stime inerenti le vittime sussiste un bel punto di domanda, non si può dire la stessa cosa sui danni materiali causati dall’alluvione di Burchardi. Esempio lampante e ancora oggi ravvisabile di quel terribile profluvio è l’isola di Strand, al largo dello Schleswig, estremo nord tedesco. Se cercate l’isola su una cartina odierna, non la troverete. Al suo posto noterete una serie frastagliata di terre emerse: tra queste due possono dirsi isole vere e proprie, ossia Nordstrand e Pellworm. La causa del suddetto epocale mutamento fu proprio la mareggiata dell’11 ottobre 1634.
C’è da dire come questa colpì la Frisia storica in un momento non proprio opportuno (anche se non esiste un momento opportuno per farsi travolgere da onde alte come cattedrali). La porzione di Europa settentrionale sotto la nostra lente d’ingrandimento si trovava all’epoca coinvolta in primo piano nella guerra dei trent’anni. Come se non bastasse, nello Schleswig-Holstein era scoppiata nel 1603 un’imponente epidemia di peste, che osava ripresentarsi a ondate e falcidiare una già debole ed esausta popolazione locale.
Uno dei primi ad intervenire subito dopo il disastro per supervisionare i lavori di bonifica fu l’ingegnere idraulico olandese Jan Leeghwater. Quest’ultimo scrisse di propria mano dei rapporti che ancora oggi conserviamo nel museo della baia di Dagebüll e che consentono di comprendere nel concreto la disperazione provata dalla gente comune di fronte ad una catastrofe inevitabile. Egli scrisse:
«Il vento girò un po’ a nord-ovest e soffiò chiaramente contro la tenuta, così forte e rigido come non avevo mai sperimentato in vita mia. Su una porta robusta sul lato occidentale dell’edificio le sbarre della serratura saltarono fuori dai montanti a causa delle onde del mare, così che l’acqua spense il fuoco [del focolare] e corse nei corridoi e sopra i miei stivali al ginocchio, circa 13 piedi più in alto delle inondazioni di maggio della vecchia terra. Al limite settentrionale della casa che si trovava vicino al canale delle maree , la terra fu spazzata via da sotto la casa. […] Quindi la casa, il corridoio e il pavimento scoppiarono in pezzi. […] Sembrava che la tenuta e tutti quelli all’interno fossero destinati a essere spazzati via dalla diga.»
Un’altra testimonianza diretta dell’episodio proviene da tale Peter Sax, un contabile di Koldenbüttel. Così si espresse in merito all’inondazione:
«Alle sei di notte il Signore Dio cominciò a sferzare con fulmini vento e pioggia da oriente. Alle sette fece cambiare il vento a sud-ovest e lo fece soffiare così forte che quasi nessun uomo poteva camminare o stare in piedi. Per l’ora ottava e verso la nona, nessuna diga poteva dirsi invitta. Il Signore Dio mandò tuoni, pioggia, grandine, fulmini e un vento così forte che le fondamenta della Terra furono scosse. Quando scoccò la decima tutto era finito.»
Rapporti coevi parlarono di un livello dell’acqua sulla terraferma di circa 4 metri (indicandolo in piedi, 13 per l’esattezza) sopra il livello medio dell’alta marea. Come dimostrano chiaramente le rassegnate parole di Peter Sax, la gente dell’epoca non poteva fare altro che associare un simile immane disastro alla volontà divina, irascibile dinnanzi ai peccati terreni. La poetessa tedesca, ma svedese d’adozione, Anna Ovena Hoyer scrisse versi sferzanti in cui interpretava l’alluvione di Burchardi come l’esordio dell’apocalisse.