Questa è la storia dimenticata di 15 milioni di persone che dall’oggi al domani furono costrette ad emigrare sotto costrizione. Questa è la storia di come circa un milione di esse morirono di stenti e altre atrocità. Queste furono le conseguenze catastrofiche della Partizione dell’India, la quale portò nel 1947 ad una delle più grandi, se non la più grande migrazione forzata del XX secolo.
Nel 1946, dopo quasi un secolo di dominio coloniale diretto (plurisecolare se contiamo l’influenza della Compagnia delle Indie orientali), Londra comunicò al mondo che di lì a breve avrebbe concesso l’indipendenza all’India. L’amministrazione del subcontinente indiano non valeva più la candela, così i britannici decisero di fare le valige in fretta e furia, lasciando all’incirca 300 milioni di sudditi (per poco tempo ancora) del Raj al loro incerto destino. A dire il vero i funzionari del viceré, Lord Mountbatten, elaborarono un piano di riassestamento amministrativo, e dunque demografico, politico e religioso. Il proposito tuttavia nasceva più da un intento frettoloso che da uno studio certosino della condizione generale. Ne risultò un disastro immane, su cui vorrei concentrarmi nelle righe che seguono.
Alla mezzanotte tra il 14 e il 15 agosto del 1947 il Regno Unito mantenne la promessa e concesse formalmente l’indipendenza all’ormai ex colonia britannica dell’India, o meglio, all’India e al Pakistan (occidentale e orientale). Sì, perché in quelle ore così concitate si verificò quella che è passata alla storia come “The Indian Partition”, che traduciamo in “Partizione dell’India”. Nacquero così due nuovi Stati, liberi e indipendenti fra loro, ma subito in conflitto. Le motivazioni alla base delle tensioni erano di natura sociale e religiosa, prima ancora che economica e politica. Tensioni che però non nascevano dal nulla, come se si fosse scoperchiato allora un proverbiale vaso di Pandora, ma che affondavano le proprie radici nell’amministrazione coloniale inglese.
Citando il professor Navtej Purewal, ricercatore indiano presso l’Arts and Humanities Research Council: “gli inglesi usarono la religione per dividere la popolazione subcontinentale in categorie. Non che prima di loro non esistessero frizioni e contrasti tra le varie fedi, eppure è da imputare a Londra l’utilizzo della religione come strumento di potere, coercizione e governo. […] Ad esempio, furono loro a creare liste elettorali separate per musulmani e indù. Si presupponeva così una rappresentanza bipartita, ognuna con proprie prerogative ed esigenze. Ma la colonia era una ed una soltanto”.
Ciò comportò un distacco tra i fedeli delle due religioni maggioritarie. Quando l’Inghilterra annunciò l’imminente indipendenza indiana, quel 25% di popolazione musulmana temette la sopraffazione di una maggioranza indù. Ne conseguì un naturale sostegno a politici che ipotizzavano una scissione nel subcontinente, dalla quale sarebbe sorta una patria musulmana indipendente. Al contrario esistevano illustri uomini – per intenderci, tipi del calibro di Gandhi e Jawaharlal Nehru – che esortavano i popoli dell’ex colonia britannica ad unirsi, nonostante la diversità confessionale, in nome di un unico grande paese.
L’uscente amministrazione britannica, memore delle allora recenti collisioni identitarie avvenute tra musulmani, indù e sikh negli anni della guerra, optò per la Partizione dell’India, che sembrava essere la soluzione più rapida ed efficace. Così facendo l’Impero britannico smentì il ventennale lavoro compiuto dal Partito del Congresso. Quest’ultimo aveva strenuamente lottato per una confederazione indiana, unita, laica e libertaria. Sbugiardò soprattutto l’opera di Gandhi, capace di guidare un enorme movimento pacifista fautore della disobbedienza civile e della protesta non-violenta. La partizione dell’agosto ’47 era una vittoria per la fazione opposta, che rispondeva alla Lega Musulmana di Muhammad Ali Jinnah. Egli era per la divisione e la formazione di Stati indipendenti. Poco importava che ciò avrebbe comportato un dissesto demografico senza precedenti nella storia contemporanea.
Il subcontinente si divise in tre: il territorio meridionale, centrale e settentrionale dell’ex Raj britannico presero il nome di Repubblica dell’India. Le estremità nord-occidentali e nord-orientali, a maggioranza musulmana, assunsero il nome di Repubblica Islamica del Pakistan. Venga qui aggiunto che l’area nord-orientale ottenne l’indipendenza durante gli anni ’70, divenendo quello che oggi conosciamo come Bangladesh.
15 milioni di persone si ritrovarono da un momento all’altro nella parte “sbagliata” del campo. I musulmani in India si riversarono nelle stazioni ferroviarie cercando di prendere un treno che li conducesse nel Pakistan occidentale o orientale. Stessa identica azione fecero i fedeli indù e sikh ma a parti inverse, quindi dal Pakistan verso l’India. Messa in questi termini ci si potrebbe aspettare un’ordinaria migrazione, seppur corposa per numero e quantità, ma pur sempre lineare e ben organizzata. Dimenticate tutto ciò. Alcuni storici sono giunti a parlare di “genocidio reciproco” vista la crudeltà e le maniere violente con cui i gruppi maggioritari scacciarono i minoritari. Aberrazioni di ogni genere costarono la vita ad un milione di persone.
Per comprende l’entità della Partizione dell’India mi affido alla sempreverde forza espressiva delle fotografie, che più dei freddi e denaturalizzanti numeri sanno comunicare la tragedia dell’evento storico. Lo scatto raffigurante uomini, donne, anziani e bambini moribondi e abbandonati al loro destino su lettini improvvisati. Gli altri sono andati via, costretti dall’incombenza del destino. La fotografia di alcuni ragazzi che disperati si mettono le mani sul capo, forse perché hanno contezza di ciò che sta accadendo. Forse perché sanno che sotto di loro, nelle tende di fortuna, gli esseri umani muoiono come mosche. L’India non è piccola, chilometri e chilometri macinati ogni maledetto giorno per raggiungere una meta che non è la tua casa, non lo è mai stata. Ma per una forza più grande di te, che tu nemmeno conosci, quella meta è diventata improvvisamente la destinazione finale, da raggiungere per non essere sopraffatti dall’odio del diverso.
Come ci si aspettava al tempo, le regioni che più di tutte si rivelarono problematiche a causa del flusso migratorio incontrollato furono quelle di confine. Punjab, Bengala, Kashmir, nomi che ancora oggi ogni tanto salgono agli onori della cronaca. Terre che vennero bagnate dal sangue innocente di decine di migliaia tra uomini e donne, di tutte le età. La brutalità che non posso mostrarvi si manifestò all’epoca in episodi di stupro, molestia e violenza sessuale. Ambo le parti furono responsabili, ambo gli schieramenti, perché di guerra sembrava di star parlando, anche se la dicitura ufficiale era “migrazione forzata”.
Dopo lo scempio che si verificò, tra l’altro sotto gli occhi di un mondo interessato alla vicenda (anche se i media erano ancora quello che erano), risuonavano grottesche le parole che Lord Mountbatten pronunciò il 3 giugno 1947. Così l’ultimo viceré, ideatore della Partizione dell’India (Piano Mountbatten), rispose ad un perplesso attivista del Partito del Congresso che chiedeva conto della formula scissionista fin troppo superficiale e poco ragionata:
«Almeno su questa questione vi darò completa assicurazione. Farò in modo che non ci siano spargimenti di sangue e rivolte. Sono un soldato e non un civile. Una volta che la spartizione sarà accettata in linea di principio, darò ordine di accertarmi che non ci siano disordini comunitari in nessuna parte del paese. Se dovesse esserci la minima agitazione, adotterò le misure più severe per stroncare sul nascere i disordini.»