Non si direbbe ma ci fu un momento, tra IX e X secolo, in cui Venezia palesò tutta la sua insofferenza per via delle continue frizioni con un popolo di origine slava rintanato lungo la frastagliata costa dalmata. Quella gente, tanto osteggiata dal Ducatus Venetiae, doveva il suo nome al fiume Neretva (Narenta per i veneziani). Dunque le fonti altomedievali ce li indicano come narentani. Cosa sappiamo di loro e in che modo riuscirono a rappresentare una concreta minaccia per una potenza in costante ascesa quale era Venezia?
Allora, per prima cosa metto le mani avanti, così come le hanno messe le fonti medievali prima di me. Sì, perché evidenze storiche sulla provenienza esatta dei narentani non vi sono perciò ci tocca ragionare sulla base di ipotesi e supposizioni. Quindi si suppone come i narentani originariamente presero parte a quella grande emigrazione che nel corso del VI-VII secolo condusse tante tribù slave dall’Europa nord-orientale nei caotici Balcani, una terra contesa dai grandi imperi, perciò costantemente afflitta da guerre, battaglie, sottotrame politiche e inattesi risvolti militari. In quella baraonda i narentani trovarono il loro posto lungo il corso del Neretva.
Due sono i documenti storici su cui si può ricavare qualche informazione valida su queste popolazioni slave stanziatesi sul litorale balcanico:
- Il primo è in greco e risale alla metà del X secolo; si intitola “De administrando imperio” (il titolo originale era “Πρὸς τὸν ἴδιον υἱὸν Ῥωμανόν”, “Pros ton ìdion hyiòn Rōmanòn”, ossia “Al nostro proprio figlio Romano”) e fu redatto nientemeno che dal basileus Costantino VII il Porfirogenito. Un manuale di diplomatica in cui l’imperatore descrive fondamentalmente i Narentani come degli slavi dediti alla pirateria e restii ad abbracciare il cristianesimo. Proprio per questa ragione la zona in cui risiedevano era nota all’epoca come “Pagania“.
- La seconda fonte invece è dell’XI secolo e prende il nome di “Chronicon Venetum et Gradense“. Scritta in latino dal cronista, nonché segretario dogale, Giovanni Diacono, l’opera ricalca in parte ciò che si evince dal De administrando imperio, aggiungendo qua e là nozioni di carattere sociale ed economico legate allo stile di vita dei narentani.
Recenti ricerche storiche hanno però smentito un’informazione su cui batterono parecchio le fonti appena citate. Gli scritti di Costantino VII e di Giovanni Diacono insistevano sul fatto che i narentani fossero così addentro alle dinamiche piratesche per via di un’incrollabile e naturale indole. Gli studi contemporanei ribaltano la tesi, asserendo ben altro. La terra in cui si insediarono non permise chissà quali attività di carattere agricolo e tuttavia si trovava al centro di un importante intreccio di rotte marine. Perciò un po’ per necessità, un po’ per arguzia, le popolazioni slave della Pagania si diedero alla proficua pirateria, rappresentando un problema per le forze circostanti.
Essi svilupparono una notevole cultura marinara (Pff, Savoia…). Riproposero su mare quello che i loro antenati avevano generato (in termini di cantieristica navale) sui fiumi. Ecco che i narentani si trasformarono in una formidabile potenza marittima, nota per le sue agili ed imprendibili navi a remi – chiamate “saggittae“- perfette per lanciare incursioni a danno di insediamenti costieri e di mercantili che passavano obbligatoriamente nel loro territorio. Accadeva che queste navi mercantili il più delle volte battessero bandiera veneziana o bizantina. Lo Stato lagunare non sopportava tali affronti, men che meno Costantinopoli.
I bottini accumulati a partire dall’VIII secolo e per buona parte dell’Alto Medioevo furono il fattore determinante della trasformazione dei narentani. Maggiori ricchezze significarono maggiore potenza navale, quindi ancor più incursioni che portavano a guadagni moltiplicati. Un circolo virtuoso per loro, vizioso per gli altri. Ciò permise ai pirati della costa dalmata di resistere all’influenza delle forze regionali circostanti, mantenendo con orgoglio una vitale autonomia.
Come esercitavano questa libertà? Su quale modello era incentrata la società di questi specifici slavi meridionali? Si sarà compreso ma lo ripeto: la stretta connessione con la pirateria e, di conseguenza, con l’ambiente marittimo, plasmò la società narentana. Essi godevano di una struttura sociale decentralizzata, con il potere detenuto da capi locali anche detti župan (traducibile in “conte”). Come anticipato, peccavano sì in agricoltura, ma compensavano con l’allevamento. Nell’entroterra della Pagania le popolazioni vivevano grazie all’allevamento di mandrie bovine e greggi ovini. Sulla costa, che per conformazione naturale e geografica rappresentava il covo perfetto per i pirati, si viveva di pesca e razzie.
Laddove la diplomazia falliva, riusciva la guerra. E guerra fu. Qui viene in mio soccorso il Chronicon Venetum et Gradense. La fonte ci dice come a cavallo tra l’anno 839 e l’840, il Ducato di Venezia si alleò con i dalmati per muovere guerra contro la coalizione croata-narentana. Al comando dei primi vi era il doge istriano Pietro Tradonico; mentre a capo dei croati-narentani si ponevano il duca Mislav (croato) e un certo capitano Držislav. Venezia ebbe la meglio ma non riuscì nel dichiarato intento di estinguere la minaccia piratesca. Questa si ripresentò puntuale negli anni successivi, a discapito del trattato di pace sottoscritto.
Sul tramontare del IX secolo, i narentani sembrarono sul punto di arrendersi di fronte allo strapotere militare di un rinnovato e rinvigorito Impero bizantino. Sotto Basilio I, il primo della dinastia macedone, l’intera area dalmata venne assoggettata a Costantinopoli con una campagna militare di comprovato successo. Purtroppo per le autorità romane, i narentani, sebbene indeboliti, riacquisirono in brevissimo tempo l’autonomia perduta.
Ancora nell’887 Venezia tornò alla carica. A guidare la spedizione del 18 settembre 887 vi era il doge Pietro I Candiano in persona (antenato di quel Pietro IV Candiano massacrato col figlio ancora in fasce). Degno di nota fu l’assedio che i veneziani tentarono nella roccaforte narentana di Macarsca. Il tentativo fallì, ma fu uno di quei fallimenti che ti segnano per decenni, se non per secoli. Pietro Candiano morì e Venezia attese un secolo prima di riprovare una qualunque azione militare a danno dei pirati adriatici.
Altro episodio che andrebbe quantomeno menzionato riguarda il leggendario “ratto delle spose veneziane“, datato 2 febbraio 943. Secondo tradizione, un commando di narentani fece incursione nella chiesa di San Nicolò al Lido. Una volta dentro, interruppero il rito della Purificazione rapendo le fanciulle veneziane. I pirati si attardarono nella località di Porto Santa Margherita, forse per spartirsi il bottino. Una flotta lagunare capitanata da Pietro III Candiano ebbe modo di raggiungerli, trucidarli e liberare le donne.
Il X secolo rappresentò per i narentani l’epoca dell’inesorabile declino. Questo fu dovuto ad una convergenza di vari fattori. Ad esempio non è da sottovalutare la crescente minaccia rappresentata dai croati riuniti sotto la corona di re Tomislav. Allo stesso modo non bisogna dimenticare come il regno di Serbia della dinastia Vlastimirović spingesse per inglobare i territori della Pagania. Infine Venezia, che ebbe la sua vendetta a partire dagli anni ’90 del X secolo.
Nel 996 dopo una serie di battaglie dall’esito incerto, i veneziani del doge Pietro II Orseolo riportarono una fondamentale vittoria a Lissa. L’isola di Curzola, strategicamente parlando la più importante dell’arcipelago narentano, cadde nel 998 in mani veneziane. Eppure dell’intera vicenda che finora vi ho raccontato, la circostanza che i più hanno in mente risale al 9 maggio dell’anno 1000. Proprio per combattere e annientare i narentani, l’autonomo (ma de iure non indipendente) Ducato di Venezia permise alla flotta di innalzare lo stendardo di San Marco. Ineccepibile segno di distacco da Bisanzio, che pure diede il suo beneplacito. Venezia vinse la sua secolare guerra con i narentani, catturando le isole di Cazza e Lagosta. Gli edifici su quest’ultima vennero abbattuti, dal primo all’ultimo, non lasciando traccia del recente trascorso abitativo.
A seguito di questi scontri, i narentani persero la loro centralità negli affari dell’Adriatico, ma non per questo rinunciarono alla nomea che li aveva resi “grandi” (tra molte virgolette). Pensate che ancora nei primi decenni del Duecento papa Onorio III incitava la Christianitas a riunirsi tanto nello spirito quanto nelle armi e partecipare ad una crociata contro le popolazioni eretiche e piratesche della Dalmazia.
Giungendo a conclusione, si può dire questo. Per via della loro incerta provenienza e del loro attestato spirito combattivo, alcuni autori balcanici (anche popolari e influenti) romanticizzarono le gesta dei narentani. Una prospettiva che ancora oggi sopravvive e cerca di imporsi sulle altre interpretazioni, più caute, più storiche e meno sensazionalistiche. Si è giunti a soprannominarli “Vichinghi dell’Adriatico”, ma io starei attento a simili definizioni, un po’ troppo fuorvianti anche se, bisogna ammetterlo con la mano sul cuore, accattivanti come poche altre.