Nella metà di giugno, il 14 per la precisione, del 1952 apriva i battenti la XXVI Esposizione internazionale d’arte di Venezia, per tutti la Biennale di Venezia. In quella edizione della prestigiosa kermesse il pittore Aligi Sassu, milanese ma dall’innegabile ascendenza sarda, esponeva per la prima volta al pubblico un’enorme olio su tela (116 x 200 cm) dall’eloquente titolo “Guerra civile”. Il riscontro mediatico fu notevole e l’opera acquisì l’informale nome con il quale oggi è nota: “I martiri di piazzale Loreto“. Descrizione vigorosa e sgargiante di una strage avvenuta a Milano il 10 agosto di otto anni prima, ossia nel 1944. Una carneficina architettata dall’occupante tedesco ed eseguita dal fantoccio repubblichino di cui vorrei parlare, ponendo tuttavia l’accento sulla speciale opera di Aligi.
Prima i fatti. Nella mattinata dell’8 agosto 1944 in viale Abruzzi, a Milano, esplose una camionetta tedesca. Il presunto attentato, compiuto da ignoti, causò la morte di sei cittadini e il ferimento di altre 11 persone. Nessun militare perse la vita, dal momento che il conducente del veicolo riportò solo lievi ferite. Come detto, non spuntò fuori nessuna rivendicazione a seguito dell’episodio. Pur trovandosi di fronte ad un atto di dubbia matrice, per di più anomalo perché compiuto in un luogo dalla valenza strategica pari a zero e senza coinvolgere personale militare (eccezion fatta per il guidatore), il comando tedesco, impersonato dal capitano delle SS Theodor Saevecke, imputò ai GAP la paternità dell’accaduto.
Per rappresaglia Saevecke, in qualità di comandante del servizio di sicurezza di Milano e provincia (AK Mailand), ordinò il prelievo di 15 partigiani precedentemente incarcerati a San Vittore e la loro successiva esecuzione in piazzale Loreto. Di fronte ai 15 condannati si pose un plotone d’esecuzione di camice nere. Ad essere precisi, essi erano inquadrati nel gruppo Oberdan della legione “Ettore Muti”, capitanatom da Pasquale Cardella. L’unità fedele alla RSI fucilò i 15 di piazzale Loreto all’alba del 10 agosto 1944. I loro corpi vennero prontamente esposti fino alle ore 20 della medesima sera. Cartelli intimidatori e dimostrativi additavano ai partigiani la sola responsabilità di quanto successo. L’esecuzione doveva essere un monito; tuttavia assunse i connotati di un inno all’ingiustizia.
Chi quel giorno passò dinnanzi lo scempio e non poté fare altro che provare disgusto fu Franco Loi. Allora bambino, ma in futuro poeta e saggista di grandissimo spessore. Le sue parole sono d’obbligo per figurare ancora meglio il misfatto:
«C’erano molti corpi gettati sul marciapiede, contro lo steccato, qualche manifesto di teatro, la Gazzetta del Sorriso, cartelli, banditi! Banditi catturati con le armi in pugno! Attorno, la gente muta, il sole caldo. Quando arrivai a vederli fu come una vertigine: scarpe, mani, braccia, calze sporche; […] ai miei occhi di bambino era una cosa inaudita: uomini gettati sul marciapiede come spazzatura e altri uomini, giovani vestiti di nero, che sembravano fare la guardia armati!»
E se è vero che le parole spesso riescono davvero a tramutare gli astratti concetti in vivide immagini, allora fu esattamente ciò che accadde ad Aligi Sassu (1912-2000). Fermamente opposto al regime, tanto da finire in carcere per i suoi ideali politici nel 1937 (salvo essere graziato da re un anno dopo), Sassu dipinse I martiri di piazzale Loreto prendendo spunto da una delle fotografie più note scattate in seguito all’eccidio del 10 agosto ’44.
L’artista sosterrà di essersi recato personalmente sul luogo della fucilazione e, dopo aver visto con i suoi occhi ed esser stato “spettatore impietrito del ludibrio a cui i militi repubblichini avevano sottoposto i corpi di quei generosi nostri fratelli”, di aver realizzato la tela nei giorni immediatamente successivi. Difficile comprovare una simile tesi, visto che la fotografia dalla quale Sassu prese spunto divenne di dominio pubblico solo qualche settimana dopo l’esecuzione. Ma non è questo ad interessarci.
Una prima ed accertata attestazione risale al 1951, quando il quotidiano Milano Sera scrisse dell’opera d’arte, anticipando di un anno il successo che avrebbe investito la tela e che avrebbe comportato l’acquisto della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma subito dopo la Biennale. Piccolo inciso: ancora oggi il dipinto si trova esposto nella capitale, se foste interessati.
A catturare l’occhio, oggi come allora, è la preponderanza del rosso sugli altri colori, egualmente accesi e vibranti. Rosso del sangue versato, simbolo di un atroce supplizio, quale l’Italia stava vivendo e aveva vissuto per vent’anni esatti. Una tonalità che nelle pennellate di Sassu assume tanti significati, neppure così sottili e fugaci. I martiri di piazzale Loreto sono là per dirci che si può morire per la libertà. Si può perdere la vita per non aver chinato il capo dinnanzi all’oppressione perpetrata da un diabolico nemico.
Una tela forte di contrasti cromatici, quasi come se lo spettatore debba rimanere destabilizzato alla vista dei soggetti esanimi. E fidatevi di chi vi scrive, “destabilizzazione” è un termine che ben si sposa con ciò che Aligi Sassu vuole rappresentare sotto forma di opera pittorica. Non un’arte qualunque, ma l’Arte della Resistenza.