Fotografia di Reza Deghati, Kabul, Afghanistan, aprile 1983. L’obiettivo della macchina fotografica cattura le marcate luci rosse che tagliano il cielo notturno sopra la capitale dell’Afghanistan, Kabul, durante l’invasione sovietica (1979-1989). Semplici luci rosse solo all’apparenza, in realtà si trattava dell’effetto ottico causato da proiettili traccianti utilizzati dai mujahidin, così da poter aggiustare il tiro delle successive salve. Spaventano ed ammaliano al contempo, queste strisce cremisi, sinonimo di dolore, atrocità, in definitiva guerra.
Si trovava lì, in un Afghanistan afflitto da combattimenti intestini e non, Reza Deghati, il fotografo d’origine iraniana e allora in servizio per il Time Magazine. Era giunto da poco meno di una settimana quando si ritrovò a scattare queste ed altre fotografie, poi divenute di pubblico interesse dopo l’assegnazione dei premi World Press Photo. Prima di addentrarci a fondo nel tema, è necessario un po’ di contesto storico, pur senza analizzare approfonditamente le dinamiche del conflitto durato un decennio, svoltosi per quasi tutti gli anni ’80 del XX secolo. Questo lavoro, senza ombra di dubbio, troverà concretezza in altre sedi. Per ora limitiamoci a poche ma fondamentali nozioni.
Nel 1978 l’assassinio di alcuni leader comunisti afghani causò un’insurrezione armata delle frange estremiste nella Repubblica dell’Afghanistan, supportate dall’URSS. La ribellione, che presto assunse i connotati di una vera e propria guerra civile, fece cadere l’allora governo autoritario di Mohammed Daoud. Esso fu prontamente sostituito da un esecutivo vicino all’Unione Sovietica, d’ispirazione marxista-leninista, pronto a rivoluzionare il paese sulle direttrici della laicizzazione e della modernizzazione. Venne proclamata dunque la Repubblica Democratica dell’Afghanistan (RDR): a tutti gli effetti uno Stato satellite di Mosca.
Gli oppositori al nuovo regime, inquadrati nelle più svariate posizioni partitiche e ideologiche (religiosi estremisti e moderati, conservatori, liberali, ecc.), si diedero una generica (e spesso incoerente) organizzazione armata. Il resto del mondo li chiamerà convenzionalmente mujahidin (“combattenti“). Seguirono due altri rovesciamenti al vertice del governo e il sostegno occidentale e statunitense ai mujahidin. Il 27 dicembre 1979 l’Unione Sovietica intervenne militarmente nella regione centrasiatica. Iniziò così la guerra sovietico-afghana. Questa non solo si protrarrà per quasi un decennio, insanguinando e disastrando una terra già povera di per sé, ma andrà ad inserirsi nei meccanismi dicotomici della Guerra Fredda, giunta agli sgoccioli. A testimoniare con le proprie fotografie il Vietnam sovietico ci fu Reza Deghati.
Egli racconta così l’esperienza: “Nel 1983, quando lavoravo per Time Magazine, il comitato editoriale mi chiese di andare a fare un reportage in Afghanistan. Mi diedero appena un mese per farlo. Non era niente per un paese così grande. Avrei dovuto trascorrere parte di quel tempo a Peshawar, in Pakistan, per preparare il viaggio. Solo da lì si entrava in Afghanistan a quel tempo…”.
Il fotografo continua: “Quello che accadde in Afghanistan negli anni ’80 fu lo specchio del periodo corrente. Un momento storico a dir poco incredibile. Uno scontro tra due estremi. Da una parte l’Armata Rossa, l’esercito più grande all’epoca, il più potente e anche il più temuto. Dall’altra, una nazione di contadini usciti direttamente dal Medioevo le cui armi migliori erano i ‘fucili di Brno’, le carabine da caccia ceche della Seconda Guerra Mondiale. Ciò che mi ha affascinato è stato l’incontro tra la forza bruta e la forza di volontà di un’intera nazione. O comunque buona parte di essa. […] Rimasi affascinato dalla nobiltà e dall’orgoglio della gente comune, pronta ad atti estremi pur di proteggersi a vicenda…”.
“Sperimentai tutto ciò nel mio primo viaggio nel 1983, dove, sulla strada per Kabul, scattai fotografie memorabili, incisive, radicali nel racconto che fanno della realtà circostante” – conclude Reza. Nell’intervista concessa ad Alternatives Humanitaires, egli forse alludeva agli scatti eseguiti nell’aprile dell’83 vicino il principale centro radiofonico della capitale. Probabilmente ancora aveva impressi nella mente i bagliori rossastri che illuminarono quella notte primaverile e chissà quante altri notti, in 10 lunghi e tortuosi anni di guerra.