Nel corso della storia sono stati diversi i fattori che hanno fatto registrare una secca interruzione della crescita demografica o un deciso rallentamento. Senza tirare il ballo il povero ed inflazionato Thomas Malthus, possono bastare esempi come guerra, carestia o malattia. Non proprio dei casi sconosciuti nell’antichità. Quando però le cose andavano bene e il tasso demografico cresceva indisturbato, persino i popoli arcaici riscontravano un problema che affligge oggi il nostro pianeta: il sovrappopolamento. Una bega non da poco, alla quale però seppero trovare una soluzione. Questa era al contempo accettata e condivisa, dal punto di vista sociale e religioso: parliamo del Ver Sacrum, tradotto dal latino in Primavera Sacra.
In un recentissimo articolo sui Piceni (che, se non l’avete fatto, vi invito calorosamente a recuperare) ho accennato al fenomeno solo di sfuggita, senza approfondirlo ulteriormente. Eppure qualche considerazione in più sul Ver Sacrum è quanto mai necessaria, perché si trattò di una consuetudine rituale attraverso cui poter meglio comprendere il pensiero e la logica degli antichi popoli italici.
Dunque, entrando più nel dettaglio, di cosa stiamo parlando? Un sunto affidabile e conciso ce lo fornisce un testimone d’eccezione. Egli nel I secolo a.C. scrisse un capolavoro della storiografia quale Antichità Romane effettivamente è. Ovviamente mi riferisco a Dionigi di Alicarnasso. Sulla Primavera Sacra il retore e storico greco scrisse:
«Ogni volta, infatti, che le città – causa l’eccesso demografico – si trovavano nella condizione di avere una produzione interna insufficiente rispetto al fabbisogno della collettività, oppure la terra, colpita dalla incostanza delle stagioni, rendeva meno del consueto, oppure un qualunque altro avvenimento, sia positivo che negativo, imponeva l’esigenza di limitare il numero degli abitanti, si dedicavano a una delle divinità tutti gli uomini nati in un determinato anno e con un equipaggiamento completo di armi venivano inviati fuori della loro patria. […] Questi dunque partivano come persone che non avrebbero più riavuto la terra patria, a meno che non se ne facessero un’altra ove fossero accolti in base ad amichevoli rapporti o per essersene impossessati con la guerra.»
Dalle parole di Dionigi si possono cogliere vari spunti di riflessione. Il primo riguarda il carattere “straordinario” del rituale. Non si celebrava il Ver Sacrum con una cadenza temporale prestabilita, bensì qualora ve ne fosse bisogno. Probabilmente la principale ragione che spinse molti popoli italici (ma anche indoeuropei, come d’altronde gli Italici erano per la maggior parte) ad emigrare e stabilirsi in terre vergini fu il sovrappopolamento. Troppe persone per troppe poche risorse. Tuttavia abbiamo modo di credere che si emigrasse anche a seguito di gravi pestilenze, carestie, catastrofi naturali o in caso di disastrose guerre.
Prendendo spunto dal caro buon vecchio Dionigi, osserviamo adesso quali erano i punti salienti del rito; le peculiarità della sua celebrazione insomma. Generalmente tutti i nati (e nella categoria rientrano vegetali, animali e umani, indistintamente) nei mesi primaverili dell’anno in cui si officiava il Ver Sacrum venivano offerti alle divinità e per questo consacrati. Un voto, in poche parole, per il quale vegetali e animali andavano incontro al sacrificio (i vegetali offerti in dono, gli animali immolati). Con i nascituri il procedimento, per fortuna, era diverso (non come a Kaiadas…). La comunità cresceva i bambini in qualità di sacrati, ovvero votati agli dei. Raggiunta la maggiore età, erano obbligati a lasciare casa e famiglia per recarsi in altri luoghi e fondare nuovi insediamenti.
Sebbene il rituale fosse ammantato di religiosità, questo aspetto in realtà appariva secondario di fronte alla necessità demografica, perciò economica e sociale. È bene specificare, tra le altre cose, come il Ver Sacrum manifestasse una sorta di accezione totemica. I sacrati non si spostavano casualmente, ma seguivano le interpretazioni che i saggi enunciavano osservando i comportamenti degli animali-totem. Suddette interpretazioni potevano condurre ad indicazioni di carattere geografico, auspici e consigli di vario genere.
Grazie al lascito culturale dei popoli antichi (spesso per tramite di Roma) noi conosciamo gli animali guida ai quali essi affidavano il destino dei futuri insediamenti. Perché non fare qualche esempio? I Sanniti veneravano il toro; i già citati Piceni il picchio verde, sacro a Marte (secondo i Romani). Poi abbiamo il caso del lupo, animale totemico per ben tre popoli italici: gli Irpini (dall’osco hirpos, ossia lupo). I Lucani, che celebravano le gesta di un antico guerriero di nome Lucius, il quale, per l’appunto, portava il nome del dio lupo Apollo lukeios. Infine – ma qui ho barato, perché non si tratta di un popolo ma di sacerdoti del centro peninsulare – gli Hirpi Sorani, veneratori del mondo sotterraneo e di cui ci tramandano l’inquietante memoria gli scritti di Virgilio, Servio e Varrone.