È il 30 marzo del 1282, lunedì dell’Angelo dopo una domenica pasquale di festa e relativa pace. Poco prima del tramonto, quando il vocio nelle chiese e dintorni si distingue per il canto dei salmi, Palermo insorge. Sembra una semplice rivolta popolare, seppur partecipata e rumorosa a dir poco. Una “semplice” ribellione che però causa l’annientamento della guarnigione reale posta a presidio della città dal re Carlo d’Angiò. Il sovrano sottovaluta la situazione, almeno fino a quando non si accorge che l’intera Sicilia reclama la sua cacciata. Perché un popolo dovrebbe desiderare ciò? Come si è arrivati ai tumulti isolani? In definitiva, cosa sono i Vespri siciliani?
Sulla figura di Carlo d’Angiò e della sua ascesa politica nel Mezzogiorno abbiamo già discusso in passato (questo l’articolo di cui consiglio caldamente la lettura per una miglior comprensione del quadro generale), perciò, senza tornare troppo indietro nel tempo ed evitando di scomodare Federico II di Svevia, faccio iniziare la narrazione dal 1265, anno della formale investitura di Carlo I d’Angiò come re di Sicilia per mano di papa Clemente IV. Due battaglie servirono all’Angiò per sbarazzarsi completamente degli Hohenstaufen, i quali avanzavano legittime pretese al trono siciliano. Benevento nel 1266 e Tagliacozzo due anni dopo, nel 1268, declararono in primis la morte di Manfredi e Corradino – e il termine della traballante stagione sveva – in secondo luogo, la totale affermazione della causa angioina sul sud Italia.
Apparentemente senza avversari, re Carlo volle fare le cose in grande. Si spese per aggiungere ai numerosi titoli che contraddistinguevano la sua persona la corona d’Albania, il principato d’Acaia e nel 1277 il prestigiosissimo trono di Gerusalemme. Oltre a ciò Carlo I assunse le vesti di campione contro il redivivo Impero bizantino di Nicea. Quest’ultimo man mano aveva riguadagnato terreno a sfavore di quello strano esperimento nato in seno alla Quarta Crociata e chiamato “Impero latino d’Oriente”.
Mentre in Italia il re di casa Angiò non volle stravolgere del tutto l’ossatura amministrativa costruita nel tempo dagli Svevi. Tranne per qualche ritocco tipicamente francese (come l’introduzione delle figure del siniscalco e del camerario), l’apparato fiscale e la ripartizione territoriale rimasero intatti così come l’organizzazione federiciana aveva voluto. Solo una cosa cambiò in modo radicale: la composizione della classe dirigente in Sicilia. Questa subì un ricambio naturale, con una fuoriuscita forzosa dei fedeli al precedente regime e un’immissione aggressiva dei fidati francesi, con tutto ciò che ne comportava in termini di stabilità politica e sociale.
E in un primo momento fu quella la miccia che fece esplodere la situazione: i soprusi dei francesi, “occupanti” e non “governanti” agli occhi dei siciliani. Eppure è storicamente accertato che dietro quelle plurime sollevazioni del 1282 ci fossero le mani dei principali avversari di re Carlo. Se ne citino due: Michele VIII Paleologo, il riconquistatore di Costantinopoli e nemico giurato degli Angiò. Pietro III d’Aragona, marito di Costanza figlia di Manfredi e nipote dello Stupor mundi, per questo pretendente al trono di Sicilia. I due strinsero un patto anti-angioino, in cui ci si accordava, oltre che per un supporto reciproco in caso di guerra aperta, anche sull’istigare i baroni siciliani alla rivolta.
Quella semplice sommossa popolare, come la si è definita pocanzi, si trasformò in un conflitto internazionale. La guerra del Vespro tra aragonesi e angioini influenzò l’intero contesto mediterraneo e non, con gli interessi in gioco persino del Sacro Romano Impero o dell’Inghilterra.
Ma torniamo agli eventi di marzo/aprile 1282. Durante i Vespri siciliani gli insorti, con le autorità momentaneamente fuori gioco, chiesero al nuovo pontefice, il francese Martino IV di sostenere l’indipendenza della Sicilia. Naturalmente il papa si mise di traverso e avallò l’azione repressiva di Carlo, che nel frattempo era passato dalle buone (vaghe promesse di riforma) alle cattive maniere (intervento militare). In luglio, con più di 90.000 fanti e quasi 25.000 cavalieri, Carlo d’Angiò sbarcò sull’isola e cinse d’assedio Messina. Dopo neppure un mese, fece il suo ingresso in scena Pietro III d’Aragona, che sbarcò a Trapani grazie alla flotta bizantina. L’aragonese si recò a Palermo dove si fece incoronare re di Sicilia col nome di Pietro I.
Da quel momento e per i successivi anni il contesto generale mutò parecchio. Lo scontro Aragona-Angiò si estese sul continente, tanto sui Pirenei quanto nel Mezzogiorno italiano. Pietro assunse la direzione delle operazioni militari, estromettendo dal compito gli stessi nobili isolani che avevano innescato la rivolta. Nel 1284 gli aragonesi ottennero due importanti successi: l’avanzata fino alle porte di Napoli fece sollevare la città contro il dominio angioino. Inoltre gli uomini di Pietro fecero prigioniero il figlio di Carlo d’Angiò, anche lui di nome Carlo.
Nonostante il vantaggio sulla carta, gli aragonesi non riuscirono a capitalizzare. Nel 1285 la morte colse un po’ a sorpresa tutti i della vicenda protagonisti. Si spensero infatti Pietro III d’Aragona – a cui subentrarono i figli Giacomo e Alfonso, rispettivamente in Sicilia ed Aragona – papa Martino IV e Carlo d’Angiò. A quest’ultimo successe il figlio Carlo, detto lo Zoppo. Il principe in realtà prima promise di non fregiarsi della corona di Sicilia per poter mediare tra le parti in nome di una pace giusta per poi dare vita al più entusiasmante dei plot twist e rimangiarsi, nelle parole e nei fatti, ogni cosa su cui aveva giurato nel trattato di Canfranc (ottobre 1288).
Ancora una volta il tristo mietitore ci mise lo zampino e smosse la carte in tavola. Nel 1291 morì Alfonso d’Aragona, perciò l’intera eredità della famiglia finì nelle mani di Giacomo. Egli da una parte non volle privarsi della Sicilia, ma dall’altra l’affidò al fratello minore Federico, quest’ultimo in qualità di luogotenente. Mentre nasceva una triplice intesa tra il pontefice, gli aragonesi e gli angioini (pace di Anagni, 1295) che avrebbe portato ad un unione matrimoniale tra due esponenti delle casate sino ad allora avversarie nonché allo scambio Sicilia per Sardegna e Corsica, i siciliani, diretti interessati (ma non dai colloqui inerenti il loro destino) proclamarono il luogotenente Federico nuovo re di Sicilia, sconfessando quanto stipulato ad Anagni.
Seguirono sei anni di guerra tra la fazione legittimista di Federico, ora Federico III di Sicilia, e l’innaturale coalizione aragonese-angioina supportata da papa Bonifacio VIII. Finalmente le parti arrivarono ad un accordo, siglato il 31 agosto 1302 nella città di Caltabellotta. Federico avrebbe rinunciato alla Sicilia, restituendola agli Angiò dopo la sua morte, se Carlo II lo Zoppo avesse tolto le sue truppe dall’isola. Il re di Sicilia sposava dunque Eleonora, figlia di Carlo, andando così a suggellare la pace di Caltabellotta. Da Roma giungeva voce di un certo mal di pancia, in quanto anche il papa aveva le sue richieste, subito accontentate (e presto disattese, ma questa è un’altra storia): Federico avrebbe riconosciuto Bonifacio VIII come suo signore e, in aggiunta, avrebbe abbandonato il titolo di “re di Sicilia” in cambio del più suggestivo “re di Trinacria”.
Con questi termini si concluse la prima fase dei Vespri siciliani. Una stagione complessa, piena zeppa di risvolti inattesi, che risaltò la centralità – non solo geografica, come ben noto, ma anche politica – della Sicilia nel grande scenario mediterraneo.