Con il crollo dell’autocrazia zarista, decaddero tutte le convenzioni sociali che sino ad allora avevano rappresentato l’ossatura del classismo in Russia. Per la prima volta nel 1917, dopo secoli di suddivisioni nette tra servitù della gleba, piccola e grande borghesia, clero e aristocrazia, le disparità sociali tra generi vennero surclassate. I movimenti femministi sorti nelle grandi città a cavallo tra Otto e Novecento collaborarono dopo il febbraio del ’17 con sindacati, soviet e governo provvisorio. Essi videro in Aleksandra Mikhajlovna Kollontaj – figura di spicco della Rivoluzione al pari di Marija Aleksandrovna Spiridonova – una leader forte e carismatica, sulla quale poter fare affidamento nella lotta per il raggiungimento di alcuni diritti essenziali. Tra questi primeggiava l’aborto.
La condizione delle donne a seguito dei decreti promulgati dai bolscevichi di Lenin tra il novembre e il dicembre del 1917 migliorò esponenzialmente. Basti citare: l’uguaglianza retributiva tra uomini e donne, l’accanimento contro ogni forma di discriminazione sul posto di lavoro, il divieto di licenziamento in caso di gravidanza e le innumerevoli disposizioni a favore delle donne una volta entrate in maternità. Oltre a ciò si elenchino servizi quali lavanderie, mense, asili nido nelle fabbriche, campi estivi, campeggi e associazioni sportive per i figli più grandi. Il nuovo governo sovietico si attivò per difendere le donne lavoratrici se vittime di violenze e stupro. Così recitava l’articolo 154 del Codice penale: “La costrizione di una donna a intrattenere rapporti sessuali o a soddisfare il desiderio sessuale in altro modo da parte di una persona da cui la donna è materialmente o professionalmente dipendente sarà sanzionata con detenzione fino a cinque anni”.
Nell’agenda bolscevica non poteva mancare la discussione sulla legalizzazione dell’aborto, tema incredibilmente delicato e per certi versi sorprendente visti gli anni in questione. Cosa era l’aborto prima della Rivoluzione russa? Anzitutto era una pratica molto comune in tutto il territorio russo. Eppure si trattava di una prassi fortemente osteggiata dal governo di San Pietroburgo (poi Pietrogrado) e dalla patriarcato ortodosso. Quando venne meno il fattore religioso perché reso illecito, l’aborto mantenne comunque la sua carica critica se trattato in termini sociali. Sia chiaro che nei dibattiti del tempo si stimava l’aborto non tanto come un diritto individuale della donna, libera di scegliere per se stessa e per il proprio corpo, ma come un traguardo della Rivoluzione, avviatasi verso il raggiungimento dell’utopia sognata da Marx e resa meno eterea da Lenin (anche se comunque inarrivabile…).
Si è scritto poche righe più sopra come movimenti femministi e autorità bolsceviche arrivarono a collaborare per stabilire dei diritti fondamentali a garanzia delle donne. Questa “collaborazione” si esplicò in realtà in lunghe ed estenuanti trattative. Da una parte le commissioni delle lavoratrici, capeggiate da rappresentati elette, ponevano al centro della loro tesi la questione della sicurezza femminile. In troppe avevano perso la vita avventandosi (per disperazione e necessità) in pratiche abortive discutibili basate su terapie tradizionali empiriche. Tirando le somme, secondo i dipartimenti delle lavoratrici era necessario scacciare una volta per tutte il ricorso alle fattucchiere, ostetriche rurali o guaritrici. Categorie comunemente raggruppate nel termine babki.
Dall’altra parte c’erano i vertici di partito e il governo. Essi spingevano sì per la preservazione della salute femminile, anche perché garante della futura generazione sovietica, ma al contempo non volevano cedere sulla legalizzazione dell’aborto, considerato un limite per la rivoluzione del proletariato. In definitiva si propose l’istituzione di organi preposti all’analisi, alla valutazione e al giudizio di singoli casi presentati dalle donne. Così si sarebbe andato incontro a quei medici che per motivi strettamente personali rifiutavano pratica abortiva (obiettori di coscienza). Il compromesso non piacque alle lavoratrici, che non accettavano l’idea di dover sottostare alla sentenza di terzi per un qualcosa che riguardava solo ed esclusivamente il loro corpo.
I dialoghi proseguirono tuttavia e il governo sovietico avanzò una seconda proposta. Sfruttando il congedo lavorativo in caso di gravidanza, lo Stato si sarebbe fatto carico del sostentamento e della tutela delle donne in maternità, annullando l’ipotesi dell’aborto poiché – nelle loro idee – sconveniente. In un secondo momento si mise sul piatto l’istruzione sui metodi contraccettivi, oggetto di discussione detestato da alcuni tanto quanto l’aborto ma sicuramente meno pericoloso. Niente di tutto ciò, le donne si opposero con fermezza a queste mezze soluzioni, asserendo nuovamente come il tempo fosse cambiato: la società cara allo zar, in cui la donna era un sub-umano preposto alla riproduzione e alla vita casalinga, era cessata.
Aleksandra Kollontaj si soffermò in più di un’occasione su come l’interruzione di gravidanza non fosse un crimine, ma una scelta lecita in quanto il feto era totalmente e inequivocabilmente alle dipendenze del corpo della donna, la quale, in extrema ratio, poteva e doveva decidere per il proprio destino. Alla fine il governo cedette e nel 1920 si avviarono le pratiche burocratiche necessarie alla legalizzazione dell’aborto. Data da segnare in rosso (è il caso di dirlo) fu il 18 novembre 1920. Sul giornale del comitato esecutivo centrale dei Soviet comparve il decreto soprannominato “proteggere la salute delle donne”. Sebbene si condannasse fermamente le pratiche abortive clandestine, dunque fuori dal controllo statale, e si consentisse l’esecuzione di “questo tipo di operazione liberamente e gratuitamente negli ospedali sovietici”, tra le righe si leggeva altro. Mosca spingeva ancora sulla gravidanza pianificata e credeva poco nell’aborto.
Secondo voi dopo il 18 novembre 1920 cosa accadde in una Russia in pieno conflitto civile, in cui a spadroneggiare era il comunismo di guerra? Esatto, solo una minuscola percentuale della popolazione femminile, la più altolocata e benestante, poté godere di questo diritto nell’immediato. Erano donne di città, anzi, delle grandi città. Per la maggioranza non si poté parlare di aborto fino al decennio successivo.
Chiaramente vi era una regolamentazione alla base. Ad esempio si poteva ricorrere all’interruzione di gravidanza entro i primi tre mesi della medesima. Inoltre esistevano delle “categorie” di donne con precedenza sulle altre (nubili disoccupate, lavoratrici nubili già madri, madri lavoratrici con tre o più figli, mogli di lavoratori con almeno tre figli). Un altro aspetto che tanti spesso dimenticano riguarda i casi in cui l’aborto era garantito alle spese dello Stato. L’URSS assicurava il diritto alle vittime di violenze, manipolazione pscicologica, stupro, alle minorenni, a coloro fisicamente o mentalmente indisposte. Ciò che accadeva in Unione Sovietica non restava di certo incastonato entro i confini territoriali. I partiti comunisti di tutta Europa fecero propria la battaglia, portando la discussione anche in ambito parlamentare. Notevole fu l’impegno della tedesca Clara Zetkin, amica e collaboratrice della Kollontaj.
Il Dott. A. B. Genss, nei secondi anni ’20 autorevole portavoce della Divisione per la protezione della maternità e dell’infanzia del Commissariato della Sanità pubblica, nonché incrollabile sostenitore del diritto all’aborto, pubblicò a Vienna un opuscolo socio-scientifico in cui affermava: “A differenza di tutti gli altri paesi, tutte le donne dello Stato proletario possono abortire, se lo desiderano. Se ne hanno bisogno, possono anche abortire a spese dello Stato. La conseguenza è che non ci sono decessi nelle interruzioni artificiali di gravidanza. […] Poiché la donna che abortisce non deve subire alcuna punizione, ma solo i guaritori vengono puniti, anche in caso di aborto mal eseguito la donna andrà in ospedale in tempo”.
17 anni, ecco quanto durò la prima esperienza dell’aborto in Unione Sovietica prima che Stalin, per un puro scetticismo personale, lo rendesse illegale. Oppositori erano sempre esistiti e in tantissime occasioni avevano fatto valere la loro voce. Essi interpretavano la pratica abortiva come un male necessario da sopportare per fare uscire le donne sovietiche dall’indigenza economica. Il già citato Stalin negli anni ’30 si convinse del fatto che l’aborto fosse un ostacolo alla crescita demografica sovietica. Ne conseguì la messa al bando fino alla morte del dittatore georgiano, dopo la quale si assistette ad una debole riapertura.