L’Iran di oggi deve tutto al biennio 1978-79. Gli anni in cui la rivoluzione trasformò radicalmente un paese, plasmandolo in qualcosa che mai prima di allora si era visto, non solo nella regione geografica di riferimento, il Medio Oriente, ma addirittura nell’intero globo. Due anni movimentatissimi – come turbolenti furono i decenni precedenti – che da una parte segnarono il definitivo crollo della monarchia, ma che dall’altra permisero l’instaurazione di una repubblica islamica sciita. Come dicevano i filosofi pluralisti già nel V secolo a.C. “nulla viene dal nulla”, e allora come si giunse alla Rivoluzione iraniana?
Nei primi di febbraio del ’79 un aereo di linea atterrò nell’aeroporto di Teheran. Non si trattava di un aereo qualunque, perché dalle scalette di quel velivolo scese a passo lento ma deciso il religioso sciita Ruhollah Khomeyni. Egli tornò in quell’esatto istante dopo anni ed anni di esilio tra Iraq e Francia. La sua condanna era stata quella di aver aspramente criticato lo scià Mohammad Reza Pahlavi. Quando mise di nuovo piede sul suolo iraniano, quelle critiche si erano trasformate in aperta e violenta contestazione, contro un autocrate poco attento alle esigenze di buona parte del popolo e restio ad accettare il dibattito politico sulla sua persona e sul suo modo di governare.
Così la pensavano le decine di migliaia di persone che acclamarono Khomeyni fuori dall’aeroporto, accecati all’unisono dal carisma dell’ayatollah. Forse in cuor loro i rivoluzionari potevano aspettarselo, ma non tutti captarono in tempo il significato che quell’uomo avrebbe assunto per il paese.
I disordini di quei mesi al tramonto degli anni ’70 trovarono la loro ragion d’essere nei tentativi di riforma voluti dallo scià – e suggeriti dall’alleato statunitense – sin dal 1963. Con la cosiddetta “Rivoluzione bianca” la monarchia mirava ad accreditarsi il riconoscimento per aver modernizzato da cima a fondo una nazione fino ad allora arretrata, seppur in leggera ripresa. Non che lo scià o gli USA fossero mossi da generosi ideali libertari o egualitari. L’obiettivo era quello di mostrarsi aperti al cambiamento prima che il medesimo venisse imposto con la forza dalle frange politiche ispirate al marxismo. Agire prima del tempo per un guadagno esclusivamente politico, di immagine. Purtroppo per Reza Pahlavi la modernizzazione tanto agognata stravolse i delicatissimi equilibri del paese, generando proteste e manifestazioni di dissenso. Qualcuno, più di qualcuno, capì che dietro lo slogan “modernizzazione” vi era il termine “occidentalizzazione“.
Fu quello un passo più lungo della gamba, visto il trascorso recente dell’Iran, che solo dieci anni prima della Rivoluzione bianca aveva assistito al colpo di stato orchestrato dall’Occidente (Washington e Londra in primis) per scacciare il nazionalista Mossadegh e rimettere sul trono lo scià. A queste premesse di carattere squisitamente politico si aggiunsero fattori quali lo scontento del ceto medio-basso, la corruzione dilagante, il nepotismo, l’inflazione e la disoccupazione generalizzata. Nel 1977 gli intellettuali scesero in piazza. A loro si unirono i religiosi più radicali. La rivoluzione, auspicata da nazionalisti, clericali, studenti, comunisti, era vicina. Come ho detto pocanzi, nessuno aveva considerato l’entrata in gioco di Khomeyni, o almeno non aveva tenuto conto del suo “peso specifico”.
Se vogliamo questo fu il più grande errore di calcolo delle forze estranee all’ambito religioso. Pensiamo ai Fedayyin-e khalq (“volontari del popolo”, marxisti), promotori della guerriglia rivoluzionaria nelle principali città del paese, che decisero di unirsi ai mujaheddin islamici credendo di potersene liberare nel momento più opportuno. Le sinistre ritennero – grossolanamente, aggiungo io – di poter limitare il clero sciita in un Iran oramai intriso di valori laici e moderni. “Intriso” è un parolone, semmai “bagnato”. I gruppi politici che si convinsero dell’impossibilità dell’applicazione della shari’a furono gli stessi ad essere esautorati dall’ayatollah Khomeyni, il quale divenne in pochissimo tempo unico riferimento della rivoluzione (non a caso accostata all’aggettivo “khomeinista”).
Il 16 gennaio 1979 lo scià fuggì in Marocco. Optò per la medesima soluzione il primo ministro democratico Shapur Bakhtiar, messo dal monarca a capo del governo per salvarsi la faccia. I manifestanti interpretarono le fughe come un evidente segno di debolezza da parte della monarchia, traballante ma non caduta. Khomeyni diede la spallata finale. Essendo a capo del consiglio rivoluzionario indisse un referendum. Chiese al popolo iraniano di scegliere tra il mantenimento dello status quo o il passaggio ad una repubblica islamica. Il 98% degli aventi diritto spuntò la seconda casella. Contemporaneamente l’esercito (non tutto) passò dalla parte dei rivoluzionari, giustiziando gli esponenti del vecchio regime. Proprio perché Khomeyni non si fidava delle forze armate regolari, diede i natali alle Guardie rivoluzionarie, noti come pasdaran: una milizia ben armata ed estremamente fedele alla nuova leadership.
Nel dicembre venne varata la nuova costituzione. Essa prevedeva la coesistenza di due ordini di potere paralleli: quello politico tradizionale rappresentato dal Presidente della Repubblica e dal Parlamento, dai compiti puramente gestionali e meramente consultativi; e quello di ispirazione religiosa affidato a una Guida Suprema (faqih) assistita da un Consiglio dei Saggi (velayat-e faqih), a cui fu demandato l’effettivo esercizio del potere. Sia chiaro il seguente aspetto: si riconosceva nell’Islam e non nelle istituzioni il vertice dello Stato. Tale sistema regola ancora oggi l’assetto istituzionale dell’Iran.
Due parole sui pasdaran non sono solo necessarie, ma dovute. L’ayatollah affidò loro una fetta enorme della nuova economia iraniana, sorta dalle ceneri della vecchia grazie a massicce espropriazioni e processi di nazionalizzazione forzata (esempio capitale è l’industria petrolifera). Tanto è vero che nel presente, qualora si volesse investire nel paese, si dovrebbe contrattare in primo luogo con le Guardie rivoluzionarie, poi con i restanti intermediari. Il corpo dei pasdaran scalzò l’esercito per tutto quello che riguardava l’intervento militare all’estero. Loro furono coinvolti nella guerra in Siria a sostegno di Bashar al-Assad. Sempre loro si presero di prepotenza la scena nella sanguinosissima guerra con l’Iraq di Saddam Hussein (1980-1988).
L’Iran divenne un luogo in cui la legge coranica la faceva da padrona. Una maggioranza schiacciante della popolazione disse sì al bando degli alcolici, del gioco d’azzardo, della prostituzione. Diede il proprio assenso alla persecuzione degli omosessuali (i quali potevano anche andare incontro alla pena capitale), alla pena di morte in caso di stupro o adulterio. Si affermò la suprema volontà della shari’a, secondo la quale la donna deve coprire braccia e gambe con abiti non succinti, il capo con un velo, nascondendo rigorosamente i capelli.
La rivoluzione in Iran ebbe un duplice effetto a livello internazionale. Da un lato attirò l’attenzione accademica sull’originale (per i tempi) connubio tra politica e spiritualità islamica. Dall’altra esacerberò una diffidenza nei confronti dell’Islam nata in Occidente in tempi non sospetti. Diffidenza che ben presto si tramutò in paura, paura dalla quale scaturì ostilità. L’Iran di oggi è lo stesso che Khomeyni immaginò ormai 45 anni fa? Nella struttura statale e nelle dinamiche che la regolano magari sì; nella società quotidiana è difficile a dirsi. Il giudizio, prettamente critico ed analitico, non spetta a me, non spetta a noi o ad altri, ma solo ed esclusivamente alla storia.