A lungo osservano e con le loro espressioni facciali ti giudicano, facendoti sentire fortemente a disagio, intimidito da un’astio neppure troppo velato, turbato da una malizia sprezzante. Questo si prova entrando In un’osteria romana, e quindi varcando idealmente la cornice entro la quale sussiste il dipinto di Carl Heinrich Bloch. L’olio su tela del 1866 ha una storia interessante alle sue spalle e attraverso la sua analisi vorrei raccontarvela.
A commissionare il quadro fu l’imprenditore commerciale Moritz G. Melchior, fedele amico nonché grande sostenitore di Bloch. Melchior fece un viaggio in Italia nell’autunno del 1865 e rimase affascinato dal paese, dalla sua natura, dalla fisionomia delle sue principali città, ma in particolar modo ciò che colpì l’animo del mercante fu la trasparenza con la quale le persone manifestavano i loro sentimenti, anche i più intimi e sinceri. Inoltre lo colpì nel profondo una tela realizzata quasi vent’anni prima da un altro eccellente pittore danese, Wilhelm Marstrand (di cui Bloch era allievo), nota come Ragazza che accoglie una persona che entra. Volendo un quadro simile, ma aggiornato nella tecnica e nelle tonalità, Melchior affidò il compito a Bloch.
Lo stesso artista conosceva bene le ambientazioni italiane avendo trascorso sei anni di vita (dal 1859 al 1865) nelle varie città dello stivale. Rifacendosi alle pennellate introspettive di Rembrandt e all’uso di colori accesi, Carl Heinrich Bloch dipinse In un’osteria romana (Fra et romersk osteria). Una commistione tutt’altro che decifrabile di dettagli riguardanti abiti, pieghe, gioielli, fisionomie ed inserti curiosi.
L’ambiente è quello di una classica taverna dell’Urbe, tradizionalmente ricca di schiamazzi, vocio generale e convivialità. In primo piano risaltano tre clienti: un ragazzo di fronte a due altrettanto giovani fanciulle. La donna sul lato sinistro del tavolo indossa il velo tipico delle accasate, secondo il costume ciociaro. Quest’ultima sorride, genuinamente, come se noi, lo spettatore, avessimo osato rivolgergli un riguardo di troppo. E di questo se ne rende conto lo stesso uomo, di lei marito, che con evidente irritazione e stizza si volta, fissandoci in cagnesco. Il terzo individuo, la giovane di mezzo, forse nubile, sogghigna con occhi penetranti mentre sorseggia un classico calice di vino rosso. A farla da padrone in questa scena è il sottinteso: ciò che si dice non aprendo bocca.
Emblematico appare dunque il gatto, sull’estremo sinistro del dipinto, che con naturale portamento tende a “giudicare” chi gli sta di fronte: noi in tal caso. L’opera di Carl Heinrich Bloch (che si è raffigurato di spalle mentre parla in con altri due gentiluomini) ruota tutt’attorno questo aspetto sentenzioso.
In un’osteria romana divenne in realtà parte di un ciclo di opere simili, realizzate in contesti e tempi diversi, aventi come tema centrale quello del banchetto diurno. Si rammentino i prototipi di Elisabeth Jerichau-Baumann e di Cai Ditlev Hegermann Brandt, rispettivamente del 1860 – perciò precedente al dipinto di Bloch – e del 1888.
Il dipinto può essere visto in una fotografia del 1922, che mostra anche l’ultima figlia sopravvissuta di Moritz G. Melchior, Louise Melchior, in quello che un tempo era l’appartamento dei suoi genitori a Højbro Plads. Già nel 1884 Melchior lasciò in eredità il dipinto allo Statens Museum for Kunst (Galleria nazionale danese). Dopo la morte della figlia di Melchior il dipinto divenne proprietà del museo, ove ancora oggi è esposto.