Fotografia di Sebastião Salgado, Kuwait, aprile 1991. Gli spray chimici proteggono un vigile del fuoco dal calore sprigionato dalle fiamme antistanti. Ogni opera d’arte, fotografia o storia che si rispetti ha un prima, un durante e un dopo. La Prima Guerra del Golfo non fa eccezione. L’operazione Desert Storm, con cui una coalizione internazionale a guida statunitense intende scacciare le truppe irachene dallo Stato del Kuwait, ha ufficialmente inizio il 17 gennaio 1991. Ufficiosamente a dare il via alle danze è la risoluzione ONU 678 del 28 novembre 1990, di ben due mesi prima.
È un nuovo modo di fare, vedere e intendere la guerra. Chiunque abbia un televisore in casa lo nota fin da subito. Suscitano scalpore gli scoop della CNN, la quale vanta l’unico inviato occidentale nell’ostile Baghdad, l’infaticabile Peter Arnett. Colpiscono le immagini delle emittenti, ancor di più le fotografie di chi si trova proprio lì, nell’arido ma ricchissimo deserto del Kuwait.
Non è uno dei primi ad arrivare Sebastião Salgado, che al tempo lavorava per il New York Times. Il fotoreporter brasiliano mette piede in Medio Oriente il 1° aprile 1991, quando i bombardamenti sono cessati ma si sta consumando una tragedia ecologica senza eguali nell’evo contemporaneo. Saddam Hussein ha ordinato ai suoi uomini di bruciare quanti più pozzi petroliferi per ostacolare l’inseguimento degli occidentali. Le stime quantitative non sono chiarissime in tal senso. La certezza è che più di 600 siti per l’estrazione di idrocarburi stanno bruciando incessantemente.
Con la sua macchina fotografica Salgado scatta fotografie iconiche, immortalando un paesaggio infernale degno della miglior rappresentazione dantesca. Di giorno il fumo si addensa nell’aria creando una cappa cenerina ed irrespirabile. La notte è al contempo suggestiva e drammatica, con le fiamme che accendono l’orizzonte, come se il sole non fosse mai calato. Per tanti locali invece, il sole, metafora di speranza e prosperità, non è mai sorto.
Nel Kuwait del 1991 ci sono carnefici e vittime, ma anche informatori (chi in veste di giornalista, chi di fotografo, chi è ambo le cose) ed eroi in tuta ignifuga. Salgado centra l’obiettivo su uno di questi, pronto ad affrontare un calore luciferino, delle lingue di fuoco che rumoreggiano talmente tanto da impedire la reciproca comprensione a due persone distanti non più di tre metri. Sarà grazie al loro operato, di vigili del fuoco e tecnici specializzati provenienti da tutto il mondo, che dopo mesi la situazione rientrerà nel grado dell’ordinario.
Non esiste miglior descrizione dell’evento di quella rilasciata dal fotoreporter 25 anni dopo l’accaduto: “Ricordo che il calore deformava gli obiettivi della mia macchina fotografica. Le mie mascelle erano stremate dalla tensione per essere esposti ore ed ore a quelle temperature. C’era rumore, c’era puzza e c’era una continua paura di una grande esplosione. Ho capito immediatamente che avevo bisogno di attrezzature speciali se volevo fotografare da vicino quelle persone impegnate a spegnere gli incendi. Per fortuna, lungo la strada ho trovato calzature e indumenti protettivi lasciati nel deserto dall’esercito iracheno in fuga. Uno dei più grandi disastri ecologici della storia moderna”.