“Ho solo un’ambizione personale, che il giorno in cui si scriverà il capitolo meraviglioso della storia di Perón, di me si dica questo: c’era, al fianco di Perón, una donna che si era dedicata a trasmettergli le speranze del popolo. Di questa donna si sa soltanto che il popolo la chiamava con amore: Evita”. Così si espresse per tramite di un microfono, in una delle ultime apparizioni pubbliche, María Eva Duarte de Perón, all’anagrafe María Eva Duarte, ma inscritta nelle pagine della Storia col nome di Evita Perón. Un nome in grado di fare breccia nel cuore delle masse, che vibrava le coscienze degli asserviti, capace di infondere un sentimento fino a poco tempo prima sconosciuto al popolo argentino: fiducia.
Sulla fiducia e sulla lotta alle ingiustizie lei fondò la propria ragion d’essere, senza mai snaturarsi, neppure di fronte al più grande dei mali corporei, neanche dinnanzi all’ostruzionismo di forze disgreganti. Questo è un omaggio ad una delle donne più influenti e amate del XX secolo, un inno ad Evita.
È la fertile pampa argentina ad accoglierla nel mondo il 7 maggio 1919. Eva nasce in una tenuta agricola nei dintorni di Los Toldos. Illegittima, come gli altri quattro fratelli, tutti più grandi. Sua madre Juana ha una relazione con il proprietario dell’azienda, ovvero suo padre, un uomo già sposato e con un’altra famiglia a cui pensare. Quando nel 1926 egli muore, per la “seconda” famiglia non c’è altro che il divieto alla partecipazione dei funerali. Una grande ingiustizia, la prima, che segna indelebilmente l’animo di Eva. Forse è in quel momento che si fanno spazio nei pensieri, offuscati dal lutto, ideali come la brama di giustizia, la determinazione, il desiderio di cambiamento. Anticipazioni della donna che verrà, per ora Eva non vuole altro che emanciparsi, rendersi autonoma e indipendente.
Lo fa, o almeno tenta di farlo. È una graziosa fanciulla dalla chioma dorata e dalle belle speranze, potrebbe fare fortune nella capitale Buenos Aires. Si tratta pur sempre di una principessa al cospetto di una regina, la Regina del Plata. La seconda metà degli anni ’30 rappresentano la svolta per Eva. Tra qualche ruolo di fortuna in film nazionali e sporadici ingaggi radiofonici, la ragazza di campagna scala i ranghi e presto diventa una delle voci più riconoscibili del panorama mediatico argentino. Nel 1944 cambia tutto. Un evento per la raccolta fondi da devolvere agli sfollati del terremoto di San Juan, organizzato a Buenos Aires, è lo scenario imperfetto per l’incontro perfetto. Eva conosce Juan Domingo Perón, il colonnello che l’anno prima aveva preso parte al colpo di stato militare a danno del corrotto Ramón Castillo.
Nelle gerarchie istituzionali del nuovo esecutivo a guida Ramirez in netta rottura col decennio infame Perón rivestiva il ruolo di sottosegretario del Ministero del Lavoro. Lei 24 anni, lui 48, il doppio. Due mondi matematicamente agli antipodi, tuttavia concilianti nell’idea di dover risollevare l’Argentina. La popolarità non tarda a raggiungerli. Eva è la voce di Juan, del suo programma politico, dei diritti delle donne quanto delle sacrosante pretese lavorative. E sacrosante lo sono davvero. Il paese è spaccato perché il governo non intercetta le richieste di una ceto popolare che si rompe la schiena nelle nuove industrie, pur non ricevendo – in termini di retribuzione e garanzie – quanto dovuto. Quella classe media, povera ma assetata di riscatto, insorge quando il 10 ottobre 1945 alti vertici governativi e militari fanno arrestare Perón. Il timore per una sua cavalcata alla Casa Rosada è troppo, meglio fermarlo.
L’insurrezione è di carattere generale, Plaza de Mayo non contiene la fiumana di descamisados che avanza perentoria al grido “viva Perón, viva Argentina”. Cinque giorni, ecco quanto dura l’incarcerazione del vicepresidente. Finalmente libero può tornare dalla sua Eva, oramai Evita. I due si sposano con rito civile nella città di Junin: prima di due gioie a stretto giro. Il 4 giugno 1946 Juan Domingo Perón è proclamato presidente dell’Argentina. Il Peronismo ce l’ha fatta, ma un enorme contributo va riconosciuto alla donna che si è spesa in qualità di “scudo di Perón e bandiera del popolo argentino”. Le riforme non tardano ad arrivare: suffragio femminile, accesso gratuito all’istruzione, rimodulazione dei contratti lavorativi, indennità di licenziamento in aggiunta ad altre tutele di vario tipo.
Evita Perón muta forma con una semplicità imbarazzante: da garbata first lady ad accesa sindacalista. La “madonna dei descamisados” – come presto iniziano a rinominarla – è attivissima sul fronte sociale. Sono gli anni in cui promuove iniziative di carattere popolare, inaugura strutture quali scuole, orfanotrofi, ospedali, ma anche quelli in cui compie viaggi di carattere politico e diplomatico. Spagna franchista sponda Madrid, Portogallo salazarista direzione Lisbona; poi Francia, Svizzera e infine Italia. Nel Bel Paese saldamente scudocrociato Evita è accolta con grandi onori da Alcide De Gasperi e da Papa Pio XII.
In occasione delle elezioni del 1951 il popolo acclama Evita: tutti, ma proprio tutti, la vogliono vicepresidente al fianco del marito. Tutti tranne lei. Teme di oscurare la figura del presidente, di scontentare l’apparato militare ma soprattutto sa che non le resta molto da vivere. Un tumore all’utero allo stadio avanzato che fino a poco tempo prima la indeboliva solo in privato, adesso presenta il malefico conto anche in pubblico. La first lady spesso è debole, preda di svenimenti improvvisi. Ciò non svia la sua determinazione, anzi la rafforza.
Il 17 ottobre 1951, nella “giornata della lealtà” che sei anni prima aveva visto nascere il mito dei descamisados, Eva compare per l’ultima volta in pubblico. Sul lato sinistro della giacca scura, all’altezza del cuore, porta una spilla, non una qualsiasi, ma quella peronista, regalata dal marito e presidente della nazione. Lei afferma: “Lo merito per una sola cosache vale più di tutto l’oro del mondo. Perché tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per amore di questo popolo e per Perón”.
Nel novembre di quell’anno si tengono le elezioni; lei vota dal letto dell’ospedale, in cui si è recata per una vana operazione. In quelle condizioni non si può fermare un male così bastardo. Fa in tempo a vedere suo marito in procinto di affrontare un secondo mandato. Poi la luce si spegne, troppo presto, perché María Eva Duarte de Perón ha 33 anni il 12 luglio 1952, quando chi la ama piange e chi la odia esulta.
Tredici giorni di esposizione, lutto nazionale e funerali di Stato. Accorrono a valanghe per porle un ultimo saluto. Si può dire che con Evita muoia anche il Peronismo, azzoppato da una fortissima crisi economica e giustiziato dal duplice golpe militare del ’55. Il presidente per amore del suo paese che non vuole vedere dissanguato in una guerra civile, sceglie il ventennale esilio. Anche la salma di lady Perón fugge da quella terra ora contaminata dal germe oppressivo del nazionalismo militarista. Il cimitero di Musocco, a Milano, sarà il luogo di riposo di Evita per 14 lunghi anni. Quando le acque si calmano, torna in Argentina. Il paese per la quale ha dato anima e corpo, esattamente in quest’ordine.