Almanacco del 27 giugno, anno 1924: esattamente cento anni fa un centinaio di deputati si astengono dai lavori parlamentari alla Camera in segno di protesta per il rapimento di Giacomo Matteotti. Si tratta della celebre Secessione dell’Aventino, avvenimento cruciale nello smantellamento dello stato liberale italiano. Ma procediamo con ordine.
Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti aveva pronunciato il suo ultimo discorso nel quale denunciava i brogli e i soprusi compiuti durante le elezioni dell’aprile 1924. Pochi giorni dopo, il 10 giugno, il politico socialista, mentre si stava recando a Montecitorio, aveva subito un’aggressione da parte di tre uomini, che dopo averlo stordito lo avevano caricato su un’automobile nera. I suoi colleghi di partito capiscono immediatamente che non lo avrebbero più rivisto se non da morto.
Le indagini, condotte dal magistrato Mauro Del Giudice, giungono subito ad indentificare gli esecutori del rapimento, tutti e tre appartenenti al PNF. Nel frattempo, lo stesso capo del governo aveva affermato in un discorso alla Camera di essere estraneo a quanto era accaduto. Tuttavia, non appena saltarono fuori le prime indiscrezioni sull’identità dei responsabile, tentò di annacquare le indagini.
Così, i 27 giugno 123 deputati decidono di abbandonare comunemente i lavori parlamentari fino a quando il governo non avesse chiarito la propria posizione. Di quel nutrito gruppo fanno parte parlamentari democratico-cattolici, socialisti, comunisti, democratico-sociali, repubblicani e del Partito Sardo d’Azione. Il nome Secessione dell’Aventino viene affibbiato in assonanza con la forma di lotta che la plebe di Roma aveva assunto per ottenere la parificazione di diritti con la classe patrizia. I plebei, infatti, si rifiutavano di lavorare abbandonando la città e rifugiandosi sul colle Aventino.
Tornando al 1924, l’intenzione degli “aventiniani” non è quella di provocare un’insurrezione armata, bensì quella di smuovere la coscienza del re, Vittorio Emanuele III. Costui, infatti, in virtù dei poteri conferitigli dallo Statuto Albertino la costituzione del Regno d’Italia, aveva la potestà di sciogliere le Camere. I deputati secessionisti, in sostanza, volevano che il monarca revocasse il mandato all’esecutivo in carica e che indicesse nuove elezioni. Una tornata elettorale da svolgersi però senza brogli e soprusi, in modo tale da dare all’Italia un governo democraticamente e liberamente eletto.
Ma tutto ciò non avviene. La monarchia rimane complice del Regime, che anzi rafforza la sua presa dispotica proprio con il fallimento della Secessione aventiniana. Due anni dopo, nel contesto del definitivo smantellamento dell’impianto liberale, la Camera dei deputati proclamerà i parlamentari aventiniani decaduti dal loro ruolo.