Riflettere sulla profonda natura del tempo, della realtà circostante, del moto incontrollato tipico del nostro inconscio. Ecco quanto suggerisce La persistenza della memoria, più di una semplice tela firmata Salvador Domingo Felipe Jacinto Dalí i Domènech – per tutti gli umani di questa terra, Salvador Dalí. Un viaggio onirico in cui la sola cosa che conta è immergersi nell’inconsistenza delle nostre certezze, o per capovolgere la prospettiva, dileguarsi dalla solidità delle nostre titubanze. Il concetto che più volte ritorna in queste poche righe è quello di “tempo”, ma l’opera maestra di Dalì, quella che meglio esprime il sentore surrealista, è senza tempo.
Quando Dalí completa la tela nel 1931, l’eccentricità del suo animo artistico aveva già avuto modo e luogo per esprimersi. Non solo grazie al tramite di una tavolozza e di un pennello. Si segnalino qui di seguito le partecipazioni filmiche in “Un Chien Andalou” del ’29 e “L’Age d’Or” dell’anno successivo, entrambi del regista aragonese Luis Buñuel. Figlio dei tradizionali insegnamenti dell’Impressionismo e del Cubismo, assimilati malvolentieri nella Real Academia de Bellas Artes de San Fernando a Madrid, Salvador Dalí sentì la necessità di sperimentare. Lo fece ispirandosi all’astro nascente del Surrealismo, ancora poco esplorato e già teorizzato dal francese André Breton.
In tal contesto – artistico e filosofico s’intende – vide la luce La persistenza della memoria. Perché se dal campo del metafisico ci spostassimo più in là, mettendo piede nel concreto di tutti i giorni, allora la tela del genio catalano assumerebbe tutt’altro significato. Infatti le circostanze che portarono alla realizzazione del capolavoro surrealista furono bizzarre ed insolite. E chi, meglio del succitato, potrebbe mai raccontare il parto artistico del quadro?
Nelle parole di Dalí in Vita Segreta: “E il giorno in cui decisi di dipingere orologi, li dipinsi molli. Accadde una sera che mi sentivo stanco e avevo un leggero mal di testa, il che mi succede alquanto raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni amici e invece, all’ultimo momento, io decisi di rimanere a casa. Gala, però, uscì ugualmente mentre io pensavo di andare subito a letto. A completamento della cena avevamo mangiato un camembert molto forte e, dopo che tutti se ne furono andati, io rimasi a lungo seduto a tavola, a meditare sul problema filosofico dell’ipermollezza posto da quel formaggio. Mi alzai, andai nel mio atelier, com’è mia abitudine, accesi la luce per gettare un ultimo sguardo sul dipinto cui stavo lavorando. Il quadro rappresentava una veduta di Port Lligat…”
“Gli scogli giacevano in una luce alborea, trasparente, malinconica e, in primo piano, si vedeva un ulivo dai rami tagliati e privi di foglie. Sapevo che l’atmosfera che mi era riuscito di creare in quel dipinto doveva servire come sfondo a un’idea, ma non sapevo ancora minimamente quale sarebbe stata. Stavo già per spegnere la luce, quando d’un tratto, vidi la soluzione. Vidi due orologi molli uno dei quali pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Nonostante il mal di testa fosse ora tanto intenso da tormentarmi, preparai febbrilmente la tavolozza e mi misi al lavoro. Quando, due ore dopo, Gala tornò dal cinema, il quadro, che sarebbe diventato uno dei più famosi, era terminato”.
Nella deposizione c’è tutto quello che serve per comprendere il mondo di Dalí. Ne La persistenza della memoria il tempo si sfoca, la realtà è inconsistenze. Gli scogli, alla faccia della suprema ed incontrovertibile legge della fisica, si deformano a loro piacimento. I corpi rocciosi sulla destra proiettano la loro immagine sullo specchio d’acqua sottostante, confondendosi a tal punto da inquietare lo sguardo di chi osserva incuriosito. I protagonisti dell’olio su tela 24 cm x 33 cm sono altri: gli orologi molli o disciolti, fate voi. Oggetti di scena liquefatti, ma non a rappresentanza di una distorsione temporale, il messaggio è un altro. Sono paladini della soggettività, emblema di ciò che noi vediamo nello scorrere inesorabile delle lancette. Dalí in quelle due ore solitarie, trascorse in attesa della moglie, ebbe un’illuminazione: comprese che soggettività faceva rima con relatività.
Con questa opera egli ci invita a ragionare sul significato che noi stessi, giudici infallibili del nostro percorso, diamo al tempo. Metafora potente alla quale si legano i vincoli della realtà. Questa può (e non “deve”) essere un’interpretazione, semmai ne esista una degna di sopravanzare le altre.