In Francia lo ricordano come uno dei più inquietanti ed intricati casi di cronaca nera. All’epoca dei fatti, poco più di un secolo fa ormai, la notizia fece non solo il giro del paese, ma del mondo intero, attirando un’attenzione mediatica senza pari, giustificata dall’entità del caso e dal suo misterioso sviluppo. Dopo il 6 aprile 1922, tanto nel piccolo villaggio bretone di Goas al Ludu quanto nel resto del globo, la domanda fu sempre e soltanto una: chi ha visto Pauline Picard?
Lei, bambina di due anni, giocava spensieratamente nel giardino della sua casa di campagna. Il padre la tenne sott’occhio almeno fino alle 16:20. Dopodiché il silenzio, non più un urlo tipicamente infantile, non più una risata, ma solo una frastornante quiete. Allertati tutti i residenti, scattarono le operazioni di ricerca. Niente di niente. Per i successivi tre giorni furono ipotizzate due piste: quella della sparizione nel bosco e quella del rapimento. Per la prima proseguirono le ricerche giorno e notte nella folta area verde a poca distanza dal villaggio; per la seconda le attenzioni degli investigatori si riversarono su un tale di nome Keramon, bracciante al servizio dei Picard con qualche scomodo precedente. Keramon, che spesso regalava dolcetti alla piccola Pauline, aveva un forte alibi, più volte confermato, che lo vedeva impegnato in affari in tutt’altro paese al momento della scomparsa.
Dal 9 aprile la polizia tornò a brancolare nel buio. Lo stallo durò poco più di un mese, perché l’8 maggio giunse dalla Normandia, precisamente dalla città di Cherbourg, una notizia sensazionale. Gli agenti avevano ritrovato una bambina di due anni, dagli occhi azzurri e dai capelli biondo cenere, vagare in stato confusionale per le strade del centro. Presa in custodia (senza alcun reclamo chiaramente) la polizia presentò la bambina alla famiglia Picard.
Sembrava lei, doveva essere lei… Invece qualcosa non quadrava. La presunta Pauline Picard aveva addosso vestiti diversi da quelli indossati il 6 aprile. Non parlava e pareva non capisse l’accento bretone, tanto familiare alla vera Pauline. Destava qualche sospetto anche il luogo del ritrovamento: come avrebbe potuto mai una bambina di due anni percorrere 480 km in direzione est nell’arco di un mese, sopravvivendo a pericoli vari, stenti e fame? Le indagini dovevano proseguire e lo fecero alacremente.
Passarono i giorni e l’estroversione della piccola lasciò spazio ad un timido atteggiamento distensivo. Molti abitanti di Goas al Ludu andarono a trovare i Picard, quantomeno per sincerarsi delle condizioni di Pauline. Uno degli ospiti un giorno si lasciò sfuggire un’ammissione di colpa inaspettata. Quell’uomo, all’anagrafe Yves Martin, fu oggetto di lunghi e ripetuti interrogatori. Le autorità alla fine lo targarono come pazzo visti gli innumerevoli vaneggiamenti e la sconclusionatezza delle sue versioni. Finito in manicomio, di Martin si persero le tracce.
Il caso subì una tremenda, anzi macabra, svolta il 26 maggio 1922. A circa 900 metri di distanza dalla casa dei Picard, un contadino si imbatté nel corpo putrefatto e decapitato – nonché barbaramente mutilato di mani e piedi – di una bambina. Nella fossa, accanto la salma, giaceva una testa mozzata irriconoscibile perché dilaniata. Indagini approfondite stabilirono l’appartenenza del corpo e della testa a due individui differenti. Si alzò un polverone di questioni, domande e leciti dubbi. Persino la redazione del New York Times contribuì alla diffusione della notizia. Ad esempio ci si chiedeva come fosse possibile che nessuno, nell’arco di quasi due mesi di ricerche, avesse notato quella fossa a pochissima distanza dall’abitazione dei Picard. Inverosimile, perché il lembo di terra in questione aveva conosciuto il passaggio di tante, troppe persone. Si giunse alla conclusione per la quale la cavità venne realizzato e riempita in un secondo momento.
Dalle speculazioni di passò velocemente al riscontro autoptico: le mutilazioni erano avvenute non a seguito di morsi (animali) ma per tagli ben eseguiti (coltelli, mano umana). La testa era quella di un uomo adulto, anche se non identificabile. Un esperto omicida eseguì un taglio toracico verticale dal quale estrasse gli organi interni della bambina. Si comprende come una tale sequela di informazioni invece di chiarire un mistero lo infittiscano ancor di più. Tra giugno e luglio i giudici sentenziarono come il corpo smembrato appartenesse alla compianta Pauline Picard e come la bambina di Cherbourg fosse una trovatella. Quest’ultima finì in un orfanotrofio con l’avallo dei Picard. Morì nel giro di due anni a causa del morbillo.
Irrisolvibile era ed irrisolto rimase il caso di Pauline Picard. Col la sepoltura del corpo martoriato nel cimitero di Saint-Rivoal, metaforicamente si inumò l’indagine, arrivata ad un punto cieco. Tra infiniti dubbi e nessuna certezza si andò incontro l’archiviazione. Se qualcuno se lo fosse chiesto rispondiamo di no: durante i primi decenni del XX secolo l’indagine forense sguazzava nel suo stato primordiale e non esisteva il test del DNA, che tanto avrebbe determinato. Per quel che riguarda il presente, da quel lontanissimo 6 aprile 1922 ci distanzia un secolo e poco più, molto ma non abbastanza per rimanere impassibili di fronte ad uno dei più irrisolvibili casi di cronaca nera di sempre.