Almanacco del 9 giugno, anno 1999: a Kumanovo, in Macedonia del Nord, la Repubblica Federale di Jugoslavia e la Kosovo Force firmavano un accordo di cessate il fuoco. Il contesto è quello della guerra in Kosovo, che vedeva contrapposti il governo serbo di Belgrado e il Kosovo volenteroso di indipendenza.
Nel 1991 il processo di dissoluzione della Jugoslavia era degenerato in un conflitto armato. Le repubbliche non serbe soffrivano il protagonismo serbo all’interno della federazione e perciò una ad una cominciarono a proclamare la propria indipendenza, ovviamente non riconosciuta da Belgrado. La guerra si caratterizzò subito per l’efferatezza dei soprusi e delle violenze nei confronti dei civili. Contrasti etnici sopiti a forza per decenni esplosero in veri e propri tentativi di genocidio.
All’interno della Jugoslavia, il Kosovo non era una repubblica federata al pari di Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro e Macedonia. Faceva infatti parte della repubblica serba, ma godeva di una sostanziale autonomia che comprendeva anche la salvaguardia della suo particolarismo etnico: il Kosovo è infatti a maggioranza di cultura albanese. Tuttavia, quando giunse al potere nel 1989, il presidente serbo Slobodan Milosevic iniziò una politica nazionalista incentrata sulla riassimilazione forzata della regione. Cominciò a revocare l’autonomia e a chiudere le scuole in lingua albanese. Nel 1991, quindi, i membri albanesi dell’Assemblea kosovara risposero con la proclamazione di indipendenza del Kosovo, che ricevette il solo riconoscimento internazionale dell’Albania.
Dapprima il leader Ibrahim Rugova optò per una resistenza passiva, per evitare che anche il Kosovo cadesse nel baratro della guerra civile come stava accadendo in Bosnia. Tuttavia, le tensioni con Belgrado aumentarono esponenzialmente. A partire dal 1996, si situazione si surriscaldò sempre più con l’entrata in azione dell’Esercito di Liberazione del Kosovo. Nel 1998 si era ormai alla guerra aperta. La NATO optò per l’intervento diretto nel conflitto tramite l’invio del Kosovo Force e l’avvio di una campagna di attacchi aerei sul territorio serbo con l’obiettivo di costringere il governo di Belgrado a sedersi al tavolo delle trattative.
Tale azione sortì il risultato sperato, dato che appunto il 9 giugno 1999 si giunse ad un accordo fra le parti. Essa prevedeva il cessate il fuoco fra il Kosovo Force e l’esercito serbo, la definizione di un’area di sicurezza di 5 km a terra intorno ai confini del Kosovo all’interno della quale le forze serbe non potevano entrare senza il consenso della NATO, il graduale ritiro delle forze armate serbe dalla regione, inclusa la bonifica di mine e trappole esplosive.
L’accordo però non avrebbe sanato del tutto la questione, che anzi rimane ancora aperta oggi. Il Kosovo è infatti solo parzialmente riconosciuto a livello internazionale. La Serbia lo continua a considerare una sua regione autonoma. Una delle sfide più grandi dell’Europa del futuro prossimo è quella di ricomporre la pace all’interno complicato mosaico etnico della penisola balcanica. Un compito assai arduo da portare a compimento: le ferite dei conflitti di trent’anni fa ancora sanguinano. Chissà quanto tempo ancora occorrerà affinché si rimargino. Sempre ammesso che possano rimarginarsi.