A quanti chiesero al vecchio ma intrepido Antinori, a cavallo tra anni ’70 ed ’80 del XIX secolo, di tornare a casa, nell’Italia che aveva calorosamente salutato, egli rispondeva con queste emblematiche parole: “Meglio cento volte la tenda del beduino, meglio il dorso del cammello, meglio la continua lotta e la sublime incertezza dell’indomani… io voglio morire in Africa, libero come la Natura”. Quello che segue è un tributo ad Orazio Antinori, uomo di scienza e di cultura, sensibile al piacere della scoperta, infaticabile Esploratore tra gli esploratori, esempio di dedizione e curiosità al servizio dell’empirismo più spassionato. Anima libera, libera come la Natura.
Orazio nacque a Perugia il 23 ottobre 1811. Figlio di un marchese e di una contessa, i primi anni del piccolo patrizio trascorsero tra gli agi nobiliari e noiose incombenze tipiche dell’aristocrazia provinciale. Un mondo soffocante, dal quale era solito evadere preferendo lo studio dell’ornitologia e l’apprendimento delle più basilari nozioni scientifiche. A queste presto si aggiunsero passioni quali il disegno, la caccia e tutto ciò che aveva a che fare con il lavoro manuale. Le vesti dell’autodidatta gli preclusero l’accesso al diploma. Nessun problema, Antinori avrebbe fatto da sé. Recatosi a Roma nel 1838, lavorò come collaboratore zoologico sotto la supervisione di Carlo Bonaparte. Con quest’ultimo – che per dovere di cronaca ricordiamo essere il figlio di Luciano, fratello minore di Napoleone – redasse Fauna Italica e Conspectus generum avium, un testo dallo spessore scientifico degno di nota.
Ma se c’era una questione che in quegli anni così effervescenti dal punto di vista politico avrebbe distolto l’attenzione del giovane dalle ricerche zoologiche, ecco, quella altro non poteva essere che il patriottismo. Allo scoppio della Prima Guerra d’Indipendenza, Orazio Antinori si arruolò nell’esercito pontificio sotto il comando del generale Durando, famoso per aver disatteso la volontà di Pio IX il quale vedeva di malocchio un intervento militare in Veneto contro gli austriaci. Per l’occasione Antinori si ferì gravemente; nulla che potesse impedire un suo ritorno a Roma alla caduta del governo papale. Fervente mazziniano e repubblicano della prima ora, divenne membro della Costituente, difendendo con spada e fucile gli assalti francesi contro l’Urbe in quell’ardente 1849. Le truppe di Luigi Napoleone (non ancora Imperatore dei Francesi come Napoleone III) restaurarono il potere temporale del Vicario di Pietro. Un deluso Antinori preferì la via dell’esilio.
Prima di muovere il passo per Grecia, Creta, Asia Minore ed Egitto, il ricercatore ebbe tempo di scalare i vertici della Massoneria – nel 1864 diventa dirigente del Grande Oriente d’Italia. Dall’Egitto iniziò il viaggio che probabilmente Antinori attendeva fin da bambino. Mosso da una curiosità morbosa, discese la terra dei faraoni fin dentro il Sudan. Incontrò persone, luoghi, animali (famoso è l’episodio con il leone che decise di fare da modello per un disegno piuttosto che divorare il marchese). Egli risalì il corso del Nilo Bianco, giungendo ad un tiro di schioppo dall’Equatore. C’è da dire come fece quel che fece in condizioni che definire “precarie” risulterebbe un complimento all’indecenza. Per non morire di stenti, Antinori e la sua compagnia ritornarono a Khartoum. La “ritirata strategica” non fu un fallimento: gli esploratori riportarono a casa un numero inquantificabile di documenti scientifici, annotazioni sull’inedita flora-fauna incontrata e postille geografiche di rilievo.
L’acclamato naturalista tornò in Italia nel 1861, giusto in tempo per convertire il pomposo mazzinianesimo in fedeltà per Casa Savoia. Per sanare dei deficit economici che iniziavano a farsi sentire, Antinori vendette al governo italiano gran parte delle sue collezioni ornitologiche. La cifra della transazione fu da capogiro per il cambio dell’epoca: 20.000 lire (114.374,34 € odierni). Con quel gruzzoletto “frate Orazio” organizzò un duplice viaggio, prima in Sardegna e poi in Tunisia. La fama di scienziato e accorto geografo lo precedeva. Non è un caso se nel 1867 partecipasse assieme a Cristoforo Negri e Cesare Correnti alla fondazione della Società Geografica Italiana. Prendendo ad esempio le rinomate Royal geographical society e la Société de gèographie, l’organizzazione italiana asservì l’interesse scientifico ad obiettivi marcatamente politici. D’altronde quelli erano gli anni della Destra Storica e del “partito colonialista”.
In qualità di rappresentante ufficiale della SGI Antinori presenziò all’apertura del Canale di Suez il 18 novembre 1869. L’Africa divenne isola – per parafrasare le note parole del Times – e l’Italia, seppur non schierando una delegazione reale per contingenze interne e più nello specifico romane, solcò le acque del canale con ben sei vascelli. Sulla prua della Principe Tommaso applaudiva un 58enne Orazio Antinori. L’indirizzo espansionistico del laboratorio geografico non soffocò tuttavia il suo puro sentimento scientifico. Il biennio 1870-72 fu prolifico sotto quel punto di vista, grazie ai viaggi nelle terre eritree ed abissine. Nel Corno d’Africa Antinori sperimentò qualcosa di mai provato prima: la sensazione di trovarsi nel luogo giusto, un posto da poter chiamare casa. Ma se da una parte egli stringeva rapporti con la classe dirigente locale, dall’altra faceva il timido e primordiale gioco del colonialismo italiano nella regione. Con che consapevolezza non è semplice dirlo.
A 66 anni, perciò nel 1876, si avventurò nel cuore del Continente Nero. L’esploratore voleva vedere con i suoi insaziabili occhi il lago Tanganica e le cascate Vittoria (Livingstone le scoprì 21 anni prima). La missione fu disastrosa a causa di mille imprevisti. Sciacalli, predoni, maltempo, fame e dissenteria rischiarono di porre fine non solo alla spedizione, ma alla vita dei partecipanti. In qualche modo Antinori sopravvisse, tornando a fatica nei domini del negus Menelik II. Presso Lèt Marefià, nel cuore storico dell’altopiano etiope, si stanziò Orazio Antinori, anziano ma instancabile per tutto ciò che riguardava la ricerca. Padrone di una stazione geografica tutta sua, proprietario di un appezzamento terriero, gestore di una colonia agricola rigogliosa, il marchese perugino sembrava aver raggiunto il suo paradiso.
Volle morire in Africa e in Africa morì. Il più grande esploratore nostrano di sempre (termine da intendere nella sua accezione contemporanea) si spense il 26 agosto 1882. Gli abitanti di Lèt Marefià, con cui l’italiano intrattenne sempre relazioni che andavano oltre il buon vicinato, lo seppellirono all’ombra di un massiccio e secolare sicomoro. L’albero simboleggiava per gli antichi egizi l’immortalità, la stessa che egli ha trovato grazie ai suoi studi e le sue pubblicazioni, per le quali era doveroso fargli un tributo, per quanto minimo.