“Hanc patriam reputans esse, Ravenna, suam“, ovvero “Ravenna, che reputò sempre essere la sua patria”. Questo era l’epitaffio di un barbaro forse svevo, certamente prigioniero dei Longobardi, che si riscoprì fedele all’imperatore romano ed in nome di questa salda obbedienza condusse le sue armate in veste di generale. A causa dell’effetto disgregatore del tempo e della scarsità delle fonti a riguardo, la sua reale identità è un enigma per la contemporaneità. Ci resta il nome e poco più, ma è quanto basta per inquadrare la storia dell’Italia del VI secolo, la penisola della doppia obbedienza, della tarda antichità e del lento riassestamento socio-politico. Quella che segue è la storia, ammaliante e velata, di Droctulfo.
Le fonti prima di tutto: ci danno testimonianza di lui Paolo Diacono, Teofilatto Simocatta, in minor misura Agnello Ravennate e qualche sparso documento epigrafico. È tuttavia il noto autore della Historia Langobardorum a presentarci con maggiore novizia di dettagli la vicenda del barbaro di origini suebe (o sveve che dir si voglia). Diacono dice come Droctulfo conobbe la prigionia sotto il re Alboino, lo stesso che nel 568 discese con un enorme seguito – fatto di guerrieri, ma anche di gente comune, carri e bestiame – nella penisola italiana. Sebbene il nostro protagonista si trovasse formalmente in detenzione, le sue doti belliche e il suo ardore in battaglia (“forma idoneus” sostiene Diacono) lo misero in risalto alla corte di Alboino.
Il re longobardo conferì a Droctulfo la dignità ducale (termine che derivava dal latino “dux“, dunque un comandante militare a capo di una fara, ovvero di un clan). In un momento che gli storici non sono riusciti ad individuare con certezza (forse il 572), il duca svevo cambia fazione, passando al servizio dei romani. Anche sul perché non si hanno notizie. Probabilmente Droctulfo, fedele alla regina Rosmunda che per l’assassinio di Alboino chiese rifugio all’esarca di Ravenna, finì egli stesso in Romagna. Forse invece il guerriero voleva solo vendicarsi della captivitas longobarda, sperimentata anni prima. La frammentazione delle fonti non permette una comprensione oculata dell’episodio, perciò proseguiamo oltre.
Paolo Diacono nel suo racconto colloca il dux Droctulfo alla difesa di Brixellum (oggi Bresciello, provincia di Reggio Emilia). Il suo compito, impartito dal vertice esarcale, è quello di difendere il presidio bizantino contro la pressione di Autari, nuovo re dei Longobardi. La presa di Brixellum, luogo strategico per l’accesso al territorio antistante Ravenna, costa alle truppe longobarde sei anni di duro sforzo. Nel 590 la città cade e Droctulfo ripara nella capitale bizantina. Il primo contatto con essa è provvidenziale per il barbaro, divenuto ora generale romano. Da quel momento la sede dell’esarca diverrà per il guerriero casa, anzi, patria.
Motivato nell’anima dall’assunzione di questa nuova identità, il duca ebbe un moto d’orgoglio e riconquistò con ingegno la terra che pocanzi aveva perduto: Brixellum. L’epitaffio riportato da Diacono scrive come quella fu la prima gloria da condottiero. Lo dico adesso: non sarà l’ultima. Droctulfo si cimenterà in un’altra impresa, se vogliamo ancor più ostica. Sempre per contro dell’impero, si scontrò con un altro “barbaro” federato, tale Faroaldo, futuro duca di Spoleto. Quest’ultimo teneva sotto scacco il vitale porto di Classe, lo sbocco di Ravenna sull’Adriatico per intenderci. La contesta tra i due arrise infine a Droctulfo, che portò a casa la vittoria navale nonostante l’inferiorità di mezzi e uomini.
Forse fu da quell’impreciso momento (gli anni ’90 del VI secolo) che gli echi delle vittorie del duca raggiunsero Costantinopoli. Non si spiega altrimenti la chiamata diretta dell’imperatore per servire in Tracia. L’episodio ce lo racconta Teofilatto Simocatta, il quale definisce il nostro protagonista “longobardo di stirpe, uomo prode e robustissimo per la guerra”. In Tracia e presso Adrianopoli, il duca ravennate d’adozione riportò nuovamente vittorie, alcune schiaccianti contro gli Avari. Dopo l’esperienza nei Balcani orientali, le fonti tacciono sulla vita del condottiero. C’è una raccomandazione di Papa Gregorio Magno – valida solamente se si dà per certo che nel periodo preso in considerazione non esistesse alcun Droctulfo all’infuori dello svevo – rivolta all’esarca d’Africa, Gennadio, che esalta le doti del duca.
Dopo la menzione, che non è neppure affidabile al 100%, cala il silenzio. Probabilmente il generale bizantino muore a cavallo tra VI e VII secolo, chissà come, chissà perché. Sicuramente desiderò la sepoltura nella sua casa, nella sua patria, Ravenna. Il desiderio venne assecondato da un prete di nome Giovanni (presbiter Iohannes) che lo fece inumare al soglio di San Vitale, basilica simbolo della città. Non proprio un luogo casuale, ecco.
A ricordare la memoria di quell’uomo, un po’ barbaro, un po’ romano, non resta altro che un muro nella zona ariana di Ravenna, dove un tempo sorgeva l’episcopio. Il mattonato di cui sopra è anche un po’ anonimo perché privo di scritte. L’epitaffio che un tempo lo decorava non c’è più. Al contrario si può scorgere una targa didascalica, la quale fa risalire la costruzione al VI secolo. Chiaramente di quell’edificio ariano, l’episcopio s’intende, voluto da re Teodorico non resta altro che la parete. Tuttavia quella mezza facciata porta un nome pesante: muro di Droctulfo. Ravenna ricorda così uno dei suoi figli più fedeli, un personaggio non di spicco se posto sullo stesso piano di re ed imperatori, ma essenziale per comprendere un’epoca così meravigliosamente ricca, diversificata e sorprendente, lontana anni luce dall’idea oscura che di lei l’uomo si è erroneamente fatto.