Fu il grande Erodoto ad introdurre nell’antichità il termine “magia”, o per meglio dire “mago” (μάγος, magos). Il Padre della Storia utilizzò il vocabolo per descrivere i sacerdoti zoroastriani nell’Impero Achemenide. Roma fece propria quella parola dal vocabolario persiano, traducendo “magus” in “avere il potere di”. Detto ciò, bisogna anche specificare come l’Urbe, tanto nella sua veste repubblicana come in quella imperiale, cercò sempre di ostacolare pratiche che avessero a che fare con la magia. Un esempio valido fu la lex Cornelia Sullae de sicariis et veneficis, promossa da Silla nell’81 a.C. per punire atti ingiuriosi come l’omicidio, l’aborto volontario, il commercio di distillati venefici e come auspicabile, la magia. Eppure c’è un evento in particolare che lega indissolubilmente Roma all’arte magica e che ebbe luogo tra il 158 e il 159 d.C. Protagonista indiscusso di quell’episodio fu Lucio Apulèio Madaurense, comunemente noto ai più come Apuleio.
Ma cosa accadde e chi era Apuleio? Partiamo da quest’ultimo punto. Egli nacque a Madaura, nella Numidia romana, intorno al 125 d.C. Di agiata estrazione sociale, il patrimonio familiare permise al giovane di viaggiare e studiare, accrescendo una già spiccata conoscenza filosofica, scientifica e retorica. Tappe essenziali per questa formazione intellettuale furono Atene e Cartagine, ove Apuleio fece proprie le nozioni filosofiche platoniche, avvicinandosi al contempo ai culti misterici orientali di Osiride ed Iside. Un momento di svolta nella vita dell’erudito ragazzo si palesò quando raggiunse la città di Oea, che oggi conosciamo col nome di Tripoli (Libia). Da qui in poi tutto ciò che la storia ha conservato – in termini biografici e letterari – proviene da un’unica fonte: Apuleio stesso. I fatti che narrerò qui di seguito sono esplicitati nella magnifica opera intitolata Apologia (Apulei Platonici pro se de magia liber).
Quindi, per ritornare alla prima domanda che ci siamo posti, cosa accadde durante quel biennio di metà II secolo? Ad Oea, il giovane Apuleio incontrò un suo vecchio amico, tale Ponziano. L’ospitalità di quest’ultimo si tramutò in un prolungato soggiorno nella città africana. Durante questo periodo, Apuleio conobbe la madre di Ponziano, rimasta vedova del primo marito; ella si chiamava Pudentilla. Tra i due sbocciò l’amore e in tempi abbastanza rapidi si organizzarono le nozze. Il problema risiedeva nella diffidenza, se non aperta ostilità, che gli altri membri della famiglia (parenti del primo marito) palesavano nella persona di Apuleio: comparso dal nulla per mettere mano sulla ricca eredità della donna. Quando Ponziano morì, la piccola scintilla divenne un incendio incontrollabile. I parenti costrinsero Apuleio in tribunale, imputandogli diversi capi d’accusa. Uno di questi, forse il più importante, verteva proprio sull’utilizzo di determinate pratiche magiche.
I familiari di Pudentilla su una cosa avevano ragione: Apuleio era sì un mago, ma della retorica. Quello che passò alla storia come il Processo di Sabrata divenne l’occasione perfetta per l’intellettuale di origini numidiche per dare sfoggio delle sue eccezionali conoscenze in ogni campo dello scibile umano. Dinnanzi il proconsole Claudio Massimo, Apuleio rifiutò l’avvocato e procedette a difendersi da solo. Mai scelta fu più azzeccata. Sicinio Emiliano, fratello del primo marito defunto e rappresentante dell’accusa, accusò Apuleio di aver ingannato la vedova per accaparrarsi l’eredità. Inganno derivato in primis dall’utilizzo di arti magiche. Curioso sottolineare come tra le “magie” citate, Sicinio alludesse al bell’aspetto e alla dialettica del filoso. Quest’ultimo ebbe vita facile nel confutare suddette tesi accusatorie.
L’accusa non si limitò esclusivamente a quelle “prove”. Ad esempio Sicinio asserì come il possesso di uno specchio e di una pasta per denti dimostrassero chiaramente non solo la vanità di Apuleio, ma anche la sua concreta abilità seduttiva volta nuovamente all’imbroglio di Pudentilla. Il retore romano seppe difendersi con grande stile. Egli rispose a quelle futili critiche ammettendo di possedere uno specchio per semplice curiosità scientifica – la stessa che aveva avvicinato imperatori allo studio della scienza ottica. Per quanto riguardava il dentifricio, la digressione a cui Apuleio si concesse divenne (addirittura nei secoli a venire) una delle più note della letteratura latina. Qui di seguito ne riporto un estratto.
“Poco fa ho visto alcuni che facevano fatica a trattenere le risa, quando il nostro oratore accusava severamente la pulizia dei denti e pronunciava con tanta indignazione la parola ‘dentifricio’. Non è davvero un’accusa di poco conto per un filosofo sentirsi dire che non tollera in sé niente di sporco, che non lascia niente di immondo o di fetido in nessuna parte visibile del suo corpo, soprattutto nella bocca, il cui uso, evidente e alla vista di tutti, si ripete più di una volta. Sì, perché la parola precede ogni azione dell’uomo. Immaginiamo ora uno che, come Omero, abbia un parlare grandioso: direbbe, secondo il suo stile, che soprattutto chi si occupa della parola deve curarsi della bocca”.
Le frivole congetture accusatorie lasciarono ben presto spazio al carico da novanta: il rimprovero sulla presunta magia. Apuleio, come è ben descritto nell’Apologia, procedette primariamente ad un chiarimento etimologico sul termine “magia”, in secondo luogo apportò un’essenziale distinzione tra magia nera e magia bianca. La prima non lo riguardava affatto, la seconda invece sì, dove per magia bianca si fosse inteso l’amore per la sapienza. Contestata e respinta questa seconda strategia, l’accusa tentò in extrema ratio di convincere il giudice sulla palese avidità di Apuleio, reo di aver sposato una donna sessantenne e di aver convinto il compianto Ponziano a cedergli la sua parte di eredità. La difesa qui non si avvalse della retorica, ma di schiaccianti prove scritte.
Anzitutto si dimostrò con un certificato di nascita l’età di Pudentilla, al tempo del processo quarantenne. Se vi state chiedendo il perché di questa precisazione, sappiate che la legge romana vietava il matrimonio con donne oltre una certa soglia d’età. In seguito Apuleio mostrò ai presenti il testamento di Pudentilla. Leggendolo ad alta voce risultò chiara la volontà della donna di lasciare l’eredità universale al figlio Ponziano e non ad Apuleio, a cui non spettava pressoché nulla. Il proconsole emise il proprio verdetto, dando ragione ad Apuleio e prosciogliendo ogni capo d’accusa. Retorica: chiamatela magia se volete.