La famiglia Romanov dominò incontrastata sulla Russia per ben tre secoli. Questa dinastia fondava la sua autorità sul fatto che il Sovrano regnasse per diritto divino. Una concezione che, al tempo di Nicola II, era ampiamente superata in quasi tutta l’Europa. Alcuni regni erano caduti, altri già da tempo avevano assunto una veste costituzionale. Anche nel regno di Nicola i tempi erano maturi e la popolazione chiedeva fortemente un cambio di passo. Con l’acuirsi delle tensioni il Sovrano dovette fare della concessioni importanti, come ad esempio la Duma, istituzione che andava a limitare il potere dello Zar. Decisione che prese con con imperdonabile ritardo e che, insieme ad azioni militari sconsiderate e alla pessima reputazione di cui godeva la famiglia imperiale, portò lo zarismo ad una fine sanguinosa.
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Oltretutto Nicola non poteva contare su una robusta discendenza. Nonostante avesse tentato di tenerlo segreto, era cosa nota che lo Zarevic Alessio fosse malato di emofilia. Proprio a causa di questa sua particolare condizione tutti in casa stravedevano per lui. In realtà era una famiglia molto unita, i genitori passavano molto tempo con tutti i figli. Questo, in un contesto in cui le famiglie reali mantenevano, di norma, rapporti molto freddi con i figli. I detrattori dello Zar capirono che questo fatto poteva essere sfruttato per rendere la famiglia reale vulnerabile. Nel marzo del 1917 in Russia scoppiò la rivoluzione. Le sommosse furono talmente gravi che Nicola II si vide costretto ad abdicare, divenendo semplicemente Nicola Romanov.
I rivoluzionari erano pienamente convinti di una cosa: Sarebbe stato troppo pericoloso lasciare l’ex famiglia imperiale a piede libero. Questo non perché Nicola avesse intenzione di avanzare rivendicazioni di alcun tipo, ma perché la sua stessa esistenza poteva essere utilizzata dai filomonarchici per legittimare azioni contro i nuovi dirigenti. Proprio per questo motivo, i rivoluzionari decisero di catturare la famiglia imperiale tenendola lontana da possibili tensioni. Inizialmente decisero di mandare la famiglia al palazzo di Carskoe Selo, ma poi per problemi di sicurezza li mandarono a Tobol’sk. Per questo periodo in realtà non si può parlare di una vera e propria prigionia. Permisero alla famiglia reale di portare 39 servitori, potevano fare le loro attività e stare all’aria aperta.
In questo periodo potevano ancora sognare di avere un futuro oltre la prigionia. Per loro era ancora possibile la fuga, credevano che gli avrebbero permesso di ritirarsi nelle loro proprietà, in Crimea e di vivere in esilio presso il cugino dell’ex Zar, re Giorgio V d’Inghilterra. In realtà la possibilità dell’esilio era la più quotata dall’ala moderata della Duma e Il Re d’Inghilterra avrebbe avuto la possibilità di aiutarli a scappare. Ma fu sua moglie, la regina Maria, ad opporsi. In quanto temeva che questo avrebbe causato grandi disordini in Gran Bretagna. Così Giorgio V non rispose alle richieste di aiuto del suo amato cugino, ma si porterà dietro questo rimorso per la vita.
Nella Duma prevalse la linea più dura, si doveva procedere all’eliminazione fisica dei Romanov. Proprio in questo contesto i soldati li trasferiranno ad Ekaterinburg, la città fortemente radicalizzata ed anti-zarista. Lì i filo-monarchici non sarebbero mai potuti arrivare per permettere una fuga dello Zar. Ed è proprio qui che le condizioni di prigionia si fecero estremamente dure. La già fragile Zarina fu la prima a crollare emotivamente, tanto che negli ultimi giorni non usciva neanche per l’ora d’aria e si spostava solamente in sedia a rotelle. La donna sentiva che non c’erano più speranze e che la loro storia sarebbe terminata lì, a Casa Ipat’ev.
La notte del 16 luglio del 1918 i soldati inviarono a Mosca un telegramma che informava Lenin della decisione di trucidare i prigionieri. All’una e trenta del mattino il comandante Jurovskij informò i Romanov che il conflitto tra le armata rossa e bianca stava minacciando la città e che, per la loro stessa sicurezza, dovevano essere trasferiti nel seminterrato. Quando tutti si posizionarono in fila, con il pretesto di scattare una foto per dimostrare alla capitale che fossero vivi, un uomo in divisa lesse la loro condanna a morte e da lì si aprì un fuoco spietato contro tutta la famiglia, esclusi i pochi fedeli domestici che li avevano seguiti.