L’arte sembra, alcune volte, fermare il tempo. Questo flusso indistinto che l’uomo cerca di scandire e canalizzare in anni, mesi, giorni ed ore. Tutto inutile. Ribelle, facinoroso e poco incline a farsi controllare, il Tempo continua a fluire, atarassico e veloce. Solo l’arte sembra avere un certo potere e Goya decise di immortalare proprio Crono, o Saturno che divora i suoi figli. Pennellate decise e veloci, quasi a voler essere più celere dell’attimo fuggente, per usare una metafora cinematografica.
Proviamo a spiegare in breve, per quanto possibile con una personalità del genere, chi era Francisco Goya. L’artista visse a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, ed è riconosciuto come il primo maestro della sua epoca. Perché maestro? Semplice, perché sovrastava qualsiasi vincolo artistico, si era emancipato dal modello dell’arte settecentesca, accademica e sottoposta a rigide regole. Lui era l’arte che dipingeva, libero ed indomito.
Apoteosi ed acme di tale libertà sarà proprio il quadro in questione. Già lontano da qualsiasi accademia, si liberò, in questo caso anche delle committenze. Era lui il committente del quadro. L’opera fa parte dell’ambito delle Pitture Nere, serie di opere concepite e realizzate per decorare le pareti della sua stessa abitazione. Non dovevano essere esposte, non dovevano essere giudicate. Erano libere come il tempo che quest’opera racconta.
Prendendo spunto dalla mitologia greca, Goya immortala Crono nell’atto di divorare i suoi figli. Il più giovane dei Titani, figlio di Urano e di Gea, saputo che uno dei suoi figli lo aveva privato del suo posto, cominciò a divorarli singolarmente. Tutti tranne uno, quel Zeus che lo sconfiggerà e lo costringerà a liberare dalle sue interiora tutti i suoi fratelli fagocitati.
Il tratto deciso e forte ricalca la volontà omicida e la perdita di senno di un padre iracondo e violento. Gli occhi quasi allucinati, la presa dura e forte nelle carni di uno dei figli e la posa quasi da combattente ricalcano la rabbia e la violenza del cuore di Crono. La luce che arriva solo da sinistra, su uno sfondo totalmente nero, ricrea un’atmosfera di sangue, di buio e dolore. Il tempo che è, ed un attimo dopo non è più, ha già fagocitato la sua prole, è già qualcosa di nuovo. Infermabile, irruento e ineluttabile.
Non si sa se Goya volesse proporre questa metafora nell’opera o se, come alcuni ipotizzano, parlasse nel quadro di una vecchiaia che ormai gli apparteneva e di una gioventù che gli era sfuggita di mano. Altri vi hanno letto una metafora di Ferdinando VII e del popolo spagnolo soggiogato dalla sua tirannide. Tutti però concordano su una cosa, quest’opera che parla di tempo, il tempo lo ha fermato, in un’istante artistico indelebile ed eterno.