La Necropoli della Via del Mare, parte integrante della stupenda cornice del Parco Archeologico di Ostia Antica, dal 2011 (anno del suo rinvenimento) non smette di regalare straordinarie emozioni ad archeologi e ricercatori interdisciplinari che operano all’interno del suo perimetro. Oltre agli elementi antropologici, topografici e architettonici, densamente analizzati nel corso dell’ultimo decennio, rivestono una grande centralità le conclusioni tratte dallo studio delle pratiche funerarie. In questo esatto contesto si incastra alla perfezione la notizia che voglio riportare nei seguenti paragrafi. Gli specialisti del succitato parco archeologico ostiense hanno scoperchiato un’anfora cineraria romana. La trepidazione del momento ha trovato massima soddisfazione nell’esito dell’apertura.
L’anfora cineraria risalirebbe alla prima o media età imperiale (dal I alla fine del II secolo d.C.). Sigillata in piombo, il suo contenuto è rimasto segreto per quasi due millenni. Ad intervenire sul manufatto sono stati il Servizio di Antropologia e il Servizio Restauro. La guida dei sopracitati esercizi appartiene rispettivamente a Paola Francesca Rossi e Tiziana Sòrgoni.
L’equipe archeologica ha presentato l’oggetto d’interesse prima della rimozione del sigillo in piombo. Queste le parole: “Al momento del ritrovamento, l’urna presentava un sigillo di piombo intatto, con il coperchio ancora saldamente attaccato al corpo. Sia il coperchio che lo strato di piombo rivestente mostrano un foro passante e un tubulo per le libagioni. Nel complesso, lo stato di conservazione dell’urna e del coperchio è buono.”
Interessante, solo per un momento, soffermarsi sul fenomeno cerimoniale e rituale delle libagioni. Queste, comuni per la sacralità antica, erano praticate da greci, romani, ebrei, cristiani, ma anche da popoli e religioni più lontane geograficamente, vedasi gli Ittiti o gli shintoisti giapponesi del periodo Kofun, anche detto “periodo delle tombe” (grossomodo dal III al VII secolo d.C.). Essenzialmente la libagione consisteva nel versare un liquido ritenuto sacro – perciò degno della sfera ultraterrena – per terra o su determinati altari/oggetti di culto. Un atto di offerta nei confronti della divinità o, come nel caso specifico di cui vi voglio rendere partecipi, relativo alla sfera familiare.
L’operazione si è svolta secondo accurati passaggi. Inizialmente gli addetti hanno rimosso con bisturi il materiale sigillante, per poi concentrarsi sul terriccio in eccesso tra il coperchio e la totalità dell’urna cineraria. Tolto quest’ultimo, non è rimasto che lo scoperchiamento dell’antico vaso funebre. Il contenuto, inalterato dopo millenni, non ha disatteso le previsioni della vigilia. Brandelli ossei e terra, compattati per l’eternità, come previsto da chi procedette con l’incinerazione.
Al momento in cui scrivo, la scoperta non ha conosciuto un approfondimento per quanto riguarda i metodi di analisi genetica. Tuttavia, in modo del tutto preliminare (perciò da prendere con le proverbiali pinze), il Servizio di Antropologia assegna ai frammenti di ossa una parvenza femminile. Che dentro quell’urna ci fosse un’ipotetica signora romana del II secolo d.C.? Solo la scienza saprà indicarcelo.