Gli intenti dell’archeologia sono nobili, ma uno in particolare mi affascina più degli altri: quello di rispolverare un passato sepolto fino ad un momento di svolta, che spesso coincide con l’agognata scoperta. L’archeologia moderna vive di questo. Tuttavia esistono delle rare eccezioni in cui le vestigia di quel passato che si vuole conoscere in modo approfondito sono sotto la luce del sole ed esprimono tutta la magnificenza del caso pur non chiarendo nulla sulla loro origine, sulla loro storia, sul perché della medesima esistenza. Le fortezze di Djado, nella vasta area desertica del Niger, rientrano a tutti gli effetti in questa microarea d’eccezione.
Le fortezze di Djado sono rovine di bastioni urbani situate nel nord-est del paese, nella regione di Agadez (confinante ad occidente con l’Algeria, ad oriente con Libia e Ciad). La maggior parte di loro si erge tra le verdi e sporadiche oasi dell’altipiano, tra le quali solo i locali abitanti sanno districarsi senza perdersi. Pensare però che gli stessi residenti padroneggiano la storia delle rocche come conoscono il paesaggio circostante è una falsa presunzione. La cosa particolarissima dell’area di Djado è proprio la sua insolita anonimia. Una sapienza che sfugge anche a chi quelle aride terre (non calcolando le pur rigogliose oasi) le abita da secoli. Come mai? Perché nessuno sa niente?
Gli ksar (termine nativo per indicare le città-fortezza) si aggrovigliano confusamente come un intreccio di fili difficile da districare. Composte da sale d’argilla, si distinguono dall’intorno solo per contrasto, quest’ultimo dato dal verdognolo dei palmeti e dal marrone consumato delle edificazioni. Strade incomprensibili, torrioni di guardia, case tanto misteriose quanto ambigue. In un passato che ad oggi è impossibile circoscrivere cronologicamente, chi sentì la necessità di dar vita a complessi architettonici del genere? Nell’area da 20 anni a questa parte (più o meno il periodo che intercorre dall’inizio dell’instabilità politica nigerina) indagini o scavi di carattere archeologico mancano come l’acqua ai pesci. Eppure dagli anni ’90 si era sviluppato una sorta di flusso turistico promettente, seppur primordiale.
Sebbene questi ksar mantengano un’aurea vergine, priva di fama certa, qualcuno in passato si pose le stesse domande che oggi vi propongo. Un ufficiale coloniale francese di stanza a Chirfa, tale Albert le Rouveur, tentò di risolvere l’arcano. Interessante sottolineare come nell’esatto istante in cui gli europei mettono piede nell’altipiano (1906), il ricordo del ruolo delle fortezze di Djado appartenga ad una trascorso difficilmente rintracciabile. Da quel che si evinse, i sparuti residenti indicavano gli ksar come luoghi sicuri in cui ripararsi dalle scorrerie forestiere condotte tra le oasi del Sahara centro-settentrionale.
Albert le Rouveur e le successive indagini antropologiche scavarono nel passato dell’area. Si scoprì ad esempio come i primi abitanti del Kawar (nome dell’altipiano) fossero i cosiddetti Sao. Essi in realtà si stanziarono in loco tra il VI e il XV secolo, ma la base di partenza era l’odierno Ciad. Quindi furono loro i costruttori delle cittadelle in sale d’argilla e legno di palma? Probabilmente no, considerando le tecniche edilizie fin troppo avanzate per essere conosciute da questo popolo. Allora basta andare avanti nel tempo e indicare i Kanuri, etnia stabilitasi nella regione tra XIII e XV secolo, come padri fondatori del complesso abitativo?
Facile pensarlo, anche se i discendenti di quei Kanuri – possessori ufficiosi degli ksar – sembrino avere i nostri stessi dubbi a riguardo. Intervistati, la totalità di loro afferma come neppure i più lontani antenati sapessero indicare gli autori delle fortezze e il quando della loro realizzazione. La mancanza di documentazione scritta, di archivi e persino di una tradizione orale non è certo d’aiuto. Altri capi tribù della regione forniscono però interessanti risposte (non comprovate da una parziale storiografia, sia chiaro). Ad esempio, il custode dell’oasi di Fachi sostiene come le roccaforti siano nate “circa due o trecento anni fa” per mano “degli arabi o dei turchi“. Quale che sia la verità, solo il ritorno della stabilità politico-sociale nella regione potrà garantire alle fortezze di Djado una minima riscoperta di un passato anonimo. L’UNESCO lavora affinché ciò accada. La speranza c’è, è presente.