Si imbocca sulla via del tramonto il 1847. Mentre Michele Novaro musica per la prima volta il Canto degli Italiani composto da Mameli e la fusione perfetta tra Regno di Sardegna e territori sabaudi sulla terraferma ha luogo, un ventisettenne Vittorio Emanuele di Savoia, principe ereditario, si innamora di una giovane e vivace Rosa Vercellana, quattordicenne nizzarda di nascita. I due si incontrano per la prima volta presso il Castello di Racconigi. Lei si trovava lì perché il padre è incaricato del presidio militare in loco, lui invece adora trascorrere il suo tempo libero in quella tenuta di caccia, che più si addice al suo rigorismo militare rispetto alla galanteria di corte (che comunque riesce ad espletare con dignità). Ha inizio così la storia d’amore tra il futuro primo re d’Italia e la donna che passò dall’essere amante a sposa morganatica. Ripercorriamola assieme.
Due sono gli elementi che bisogna sottolineare nel momento in cui Rosa Vercellana e Vittorio Emanuele si congiungono in quel 1847. Primo, il Regno di Sardegna sanziona pesantemente le relazioni sessuali con ragazze minori di 16 anni. Secondo, il principe Savoia è già sposato con Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena ed è divenuto padre per quattro volte. Controindicazioni potenzialmente fatali, che pure non sradicarono il sentimento puro e vitale alimentatore della relazione nascosta – non che fosse l’unica per il caro buon vecchio Re galantuomo.
Rosa Vercellana, che presto il popolo (e persino la corte di Torino) iniziò a chiamare “Bela Rosin“, d’altronde era sveglia e perspicace, volenterosa e decisa. Seppe reggere il peso di quella unione secondaria, giocando anche sul piano contrattuale. Ok, non vinse il braccio di ferro quando chiese (in realtà la proposta veniva dalla famiglia di lei) una liquidazione reale per potersi sposare con un comandante e iniziare una nuova vita. Come per magia, l’uomo di cui sopra finì per servire nelle remote campagne sarde e lei, la “Bela Rosin”, si trasferì a Torino. Così era più facile per il principe Vittorio Emanuele incontrarla tra un impegno e l’altro.
Momento di svolta è il 1855. Maria Adelaide si spegne e Vittorio Emanuele, re di uno Stato piccolino ma rumoroso – grazie al genio politico di Cavour e il conseguente impegno nella Guerra di Crimea – è appetibile per le case monarchiche di tutta Europa. Il re di Sardegna si tappa le orecchie e non ascolta neppure i saggi consigli della cerchia a lui stretta. Nel 1858 la Vercellana si fregia dei primi titoli nobiliari: contessa di Mirafiori e Fontanafredda. Gli stessi titoli che i due figli avuti con il re, ovvero Vittoria e Emanuele Alberto, erediteranno.
Dopo l’Unità d’Italia, la coppia passa molto tempo assieme, soprattutto nella residenza reale di Borgo Castello. Vittorio Emanuele e Rosa sono felici, lo testimoniano anche i figli (tutti i figli) che riconoscono nel padre una rara premura e attenzioni insolite per un uomo del suo calibro. Allo scadere degli anni ’60 il re si ammala gravemente. Il tormento interiore lo spinge alla proposta tanto attesa: un matrimonio morganatico. La pratica può sembrare anomala ma per l’epoca non lo era. Se la contessa Rosin avesse accettato, né lei, né la sua discendenza, avrebbe potuto reclamare i diritti ereditari del sovrano. Quel matrimonio ha luogo sia con rito religioso che con rito civile il 18 ottobre 1869.
Vittorio Emanuele II si sposò per paura della morte incombente; questa in realtà ci mise 9 anni a rapirlo definitivamente. Dal 1878 al 1885, Rosa Vercellana visse perché doveva, non perché voleva. L’ultimo respiro fu per lei quasi un sollievo, giunto il giorno di Santo Stefano nella sua residenza pisana. Casa Savoia non si azzardò a seppellirla nel Pantheon (non essendo stata regina). Di tutta risposta, i figli fecero realizzare un Pantheon a Mirafiori, più contenuto nella forma e nella grandezza, ma ugualmente solenne. Quello divenne il mausoleo della “Bela Rosin”, enormemente amata, dal re e dal popolo italiano.