Tra il 1570 e il 1576 Tiziano dipinge quello che, almeno dal mio personalissimo punto di vista, sembra essere uno dei suoi più grandi capolavori: La punizione di Marsia. La tela raffigura lo strazio subito dal satiro Marsia per le sue denigranti parole nei confronti di Apollo. L’impatto tagliente della violenza è destabilizzante e, dopo un’attenta analisi, si capisce perché; tradizione vuole che l’alto rappresentante della Scuola Veneziana abbia trovato l’ispirazione per il soggetto del quadro dopo aver udito la drammatica storia su Marcantonio Bragadin, comandante della Serenissima, rettore di Famagosta, ultimo baluardo lagunare su un’isola di Cipro al centro della bellicosità ottomana. Come Marsia, il Bragadin andò contro un tragico destino per una sfrontatezza del tutto comprensibile.
Selim II, sultano della Sublime Porta dal 1566 al 1574, deve dimostrare a corte di essere almeno un’unghia di suo padre, Sulaymān Kanuni, che noi occidentali ricordiamo come Solimano il Magnifico. Nella storia dell’umanità ricorre costantemente uno schema: saldare la propria posizione di forza attraverso un successo militare. Selim II individuò sulla cartina l’isola di Cipro e ordinò ai suoi generali di conquistarla. Poco importava che Venezia, forza dominante sul territorio, pagasse un salatissimo tributo agli Ottomani per mantenere le prerogative politiche e commerciali sul centro nevralgico levantino. Il sentore di un possibile atto ostile da parte di Costantinopoli il Maggior Consiglio lo capta già nel 1569. Non a caso designa un abile militare come Marcantonio Bragadin al rettorato di Famagosta, città-fortezza dall’inestimabile valore strategico sulla costa orientale cipriota. Se cade lei, cade l’isola.
E Bragadin, che sciocco non è, si mette subito al lavoro, ergendo possenti fortificazioni a difesa della città. Passano i mesi e gli Ottomani si decidono a muovere uomini e navi. Nel luglio 1570 al comando di Lala Kara Mustafa Pascià si contano fino a 100.000 unità di fanteria, 400 imbarcazioni e circa 200 pezzi d’artiglieria. Si tenta l’immediata conquista di Limassol, la quale resiste. La seconda manovra musulmana crea però una testa di ponte a Nicosia, protetta fino ad agosto dall’altro comandante veneziano Niccolò Dandolo. La testa di quest’ultimo recapitata a Marcantonio Bragadin è un monito chiarissimo. Arrendersi è un’opzione saggia, non per il fedele veneziano. Lala Mustafa Pascià inizia nel settembre dello stesso anno quello che passerà alla storia come l’Assedio di Famagosta. Episodio cardine per la comprensione dei successivi eventi, sui quali spenderò due parole sul finale.
Le batterie sultanali tartassano le mura della città, creando danni e disagi tanto alla sparuta guarnigione veneta (poco più di 6.000 uomini) quanto più alla popolazione, prima vittima del contesto bellico. Bragadin non è solo, ci sono altri due validi provveditori che la manualistica spesso ignora: Lorenzo Tiepolo e Astorre Baglioni. Entrambi sono chiamati ad una strenua resistenza contro un corpo armato infinitamente più grande e rifornito. Famagosta resiste svariati mesi e va oltre ogni più rosea aspettativa, visto l’ingegno tattico militare che i vertici ottomani pongono in essere. Un esempio su tutti: montagne di terra (poi battuta) vengono riversate in prossimità delle mura, per poi scavare gallerie sotterranee e piazzare cariche esplosive alla base della cinta.
Il momento è critico anche per un altro motivo, se vogliamo più drammatico. La Serenissima non invia aiuti di alcun tipo. Gran parte del patriziato veneto ritiene come sia uno spreco di risorse per una causa persa in partenza. Nel luglio del 1571 Lala Mustafa Pascià esulta, perché i suoi hanno aperto a fatica una breccia. Uno spiraglio che diventa una voragine in agosto, quando ormai i veneziani sono chiamati ad alzare bandiera bianca: viveri e munizioni sono un lontano ricordo.
I termini della resa appena pattuiti prevedono un salvacondotto per i combattenti sopravvissuti, liberi di recarsi insieme ai civili verso Candia. La nuova autorità ottomana non rispetta i patti e imprigiona Marcantonio Bragadin. La gabbia è l’ultimo dei mali. I turchi seviziano il comandante, lo mutilano di naso e orecchie, lo lasciano sotto il sole cocente per 12 giorni, al termine dei quali lo pongono di fronte ad una scelta: convertirsi all’Islam per aver salva la vita. Il Bragadin dice no.
E morte sia. Appeso sull’albero della propria galea, 100 frustate lo percuotono. Costretto a marciare appesantito fino alla pubblica piazza di Famagosta, ha un collasso. Comunque gli ottomani lo incatenano ad una colonna e iniziano a scuoiarlo vivo, anche se Marcantonio esala l’ultimo respiro prima che la tortura finisca. La testa del generale, legata sul pennone insieme a quelle degli altri comandanti veneti, compie un ultimo viaggio a Costantinopoli. La storia riconoscerà il giusto merito di quella disperata resistenza, perché le forze ottomane impiegate nell’assedio di Famagosta tarderanno ad organizzarsi per un appuntamento decisamente più importante, cerchiato in rosso sul calendario: 7 ottobre 1571, Lepanto.