Lavora instancabilmente il team del progetto multidisciplinare MAIPS (Multidisciplinary Archaeological Italian Project at Shahr-i Soktha) per portare alla luce nuovi dettagli storico-archeologici su Shahr-i Soktha, la cosiddetta “Città Bruciata” dell’Iran. Nel luogo si respira l’antichità tipica dei centri floridi dell’Età del Bronzo. Il fatto che il sito sia dal 2016 Patrimonio mondiale dell’UNESCU è abbastanza significativo. L’obiettivo del gruppo di ricerca, a cui prende parte l’Università del Salento attraverso il suo Dipartimento di Beni Culturali, è quello di fare ulteriore luce su una delle zona d’eccellenza per quanto riguarda il periodo protostorico della regione.
All’incirca 2 km² di piacevoli riscontri storici. Sì, perché Shahr-i Soktha dimostra con convinzione quanto fosse rigoglioso il commercio interregionale. Lo fu senz’altro tra il subcontinente indiano e la terra mesopotamica a cavallo tra III e II millennio a.C. L’epoca non è casuale, perché corrisponde all’apogeo dell’odierno sito archeologico iraniano. L’insediamento, sviluppatosi in modo significativo dal 3.200 a.C., viveva di manifattura, artigianato e commercio. Da e per Shahr-i Soktha passavano merci preziose. La prova? Il ritrovamento di pietre pregiate non lavorate come lapislazzuli, ma anche alabastro e turchese.
La “Città Bruciata”, situata in un punto strategico-territoriale nel Sistan, assolveva alla funzione di immagazzinamento, stoccaggio e smercio verso tutti quei punti d’interesse dalla rilevante domanda. Non dimentichiamo come la città godesse di un duplice flusso commerciale. A nord vi era la rotta del Khorasan, (successivamente cara agli arabi) mentre a sud aumentava di prestigio la via marina del Golfo Persico.
Con la progressiva crescita di quest’ultima arteria si verificò il velocissimo – e per molti versi ancora oggi inspiegabile – declino della “Città Bruciata”. Gli esperti puntano il dito contro un cambio repentino, nonché fatale, del clima. Il che non è fuori dal mondo, considerando in primis esempi noti di un tal destino e in secundis, ma non per importanza, l’ovvia dipendenza di centri urbani così sviluppati dalle riserve idriche circostanti. Da risaltare il ritrovamento di tavolette d’argilla per la contabilità, sintomo diretto dell’attività gestionale inerente all’accrescimento economico regionale.
Il professor Giuseppe Ceraudo, impegnato nell’indagine archeologica sul campo, afferma: “Significative evidenze fanno pensare che il sito si comportasse come un centro dalla struttura eterarchica. Gruppi di origini tribali diversi convissero in uno stato di equilibrio sociale in cui gli aspetti gerarchici furono destinati solo all’interno di ogni singolo gruppo, in un regime di equilibrio economico dettato verosimilmente dalla prosperità che il centro dovette avere durante la prima metà del III millennio a.C.”
Forse in virtù di questa amministrazione decentrata e il mancato sviluppo di una classe dominante, la città ha risentito dell’assenza di un decisionismo atto a superare il momento di crisi negli anni di profonda siccità. Si materializzò quindi, attraverso queste modalità, una fine già scritta eppure schivabile.